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Che stranezza per un gruppo sciogliersi per le eccessive distanze geografiche tra i propri componenti. Eppure pare che sia questa la stravagante ragione che ha provocato la fine di uno dei gruppi più amati degli ultimi anni, i Pavement. Del resto che avessero qualcosa di peculiare lo si era intuito sin dal loro esordio del 1992, quello splendore di disco che è “Slanted and Enchanted”, in cui cantavano “I was dressed for success/ But success it never comes” (“Here”). Una formazione eccitante e avventurosa, interessata più alla propria musica che alle copie dei propri dischi venduti. Impegnata a costruire piccoli gioielli melodici screziati di rumore, piccole gemme capaci di farvi innamorare al primo ascolto, brani che percorrono un filo sottile tra ironia e malinconia.
Il problema con questo esordio solista di Stephen Malkmus, cantante, chitarrista e principale compositore dei Pavement, è che coincide con un vero e proprio trauma come la fine del gruppo. E l’unico modo per consolarsi di tale perdita è tuffarsi a capofitto in queste dodici tracce, in quella voce che sembra quella di Lou Reed rimasto ragazzino, in quei titoli improbabili (chi altro avrebbe potuto intitolare una canzone “Trojan Curfew”?), in quei testi bizzarri. E scoprire che in realtà le cose non sono cambiate più di tanto. Malkmus ha solo proseguito nell’affinamento della propria scrittura, diventando un grande autore di canzoni pop. Alcune tra queste sono piccole magie degne dei Velvet Underground più lievi, “Churh on White” e “Trojan Curfew”, dolcemente malinconiche, altre spigliate e sorprendenti melodie sghembe, “Phantasies”, “Jo Jo’s jacket” e “Vague Spaces”, altre ancora solidi pezzi rock, l’iniziale “Black Book” e “The Hook”.
Ciò che conta più ogni altra cosa è che Stephen Malkmus riesce ancora a coinvolgerci e a sorprenderci, a stupirci con canzoni che improvvisamente cambiano direzione, con dodici pezzi che sanno di nuovo incantare.