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Secondo grande album del gruppo di Peter Hammill dopo “The Least We Can Do Is Wave To Each Other”, e del medesimo anno. Il quartetto britannico, coadiuvato da Nic Potter al basso (in “Killer”, “The Emperor…” e “Lost”) e dalla chitarra di Robert Fripp in “The Emperor…”, prosegue sulla linea di una musica certo non facile o di immediata comprensione, senza compromessi; un progressive personalissimo, su cui la voce di Hammill si staglia come una rupe, scoscesa e bellissima. Una voce capace di toni leggeri e suadenti, epici e intensi, oppure lancinanti, sofferenti e urlati. Le sono fedeli compagni i fiati di David Jackson, saxofoni e flauto, uno dei maggiori segni di distinzione dei Van der Graaf. Si ascolti “Killer”, forse il brano più compatto, se non il migliore: il sax è utilizzato sia come strumento solista, diciamo così, sia come un basso aggiunto, in funzione ritmica. Non sarà un caso che Jackson sfoderi, oltre al soprano e al tenore, anche il sax baritono, a creare un denso, corposo impasto sonoro. Le canzoni del gruppo hanno certamente una tendenza più o meno forte alla cupezza, che talvolta si stempera in elegiaca e lirica tristezza, in malinconia. Appartiene a quest’ultima categoria “House With No door”, la seconda traccia, la più delicata e struggente dell’album, illuminata dal pianoforte (qui suonato dallo stesso Hammill) e soprattutto dal flauto: attenzione anche alla grande bellezza del finale in sfumato. Il brano ricopre qui in “H to He…” la stessa funzione che “Refugees” ha in “The Least…”: quella della distensione temporanea dell’ascolto; ambedue inoltre sono collocati al secondo posto nei rispettivi albums. Sarà un caso? Proseguendo, i giochi si fanno più complicati con “The Emperor in His War-Room”, divisa in due parti ma sostanzialmente unitaria nei temi. Fascinosa, ritmicamente e vocalmente variata. Lo stesso può dirsi di “Lost”, anch’essa in due parti, e di “Pioneers Over c.”, nelle quali troviamo addirittura qualche andamento jazzistico e accenni di improvvisazione. Gli ultimi due pezzi sono però, a nostro modestissimo parere, complessivamente inferiori a ciò che li precede; un po’ troppo spezzati, franti, dispersivi. Sempre, in ogni modo, di alta qualità, con passaggi di grande suggestione: specialmente vocale. Si tratta di un’opera che i veri amanti del prog-rock non potranno che apprezzare, specialmente dopo averne approfondito la conoscenza con ripetuti ascolti. Uno schiaffo alla banalità. Per quanto ci riguarda, e se ne può discutere a lungo, abbiamo una leggerissima predilezione per “The Least We Can…”, dovuta principalmente alla maggior compattezza dell’insieme.
Tutte le liriche sono di Peter Hammill. Hugh Banton, oltre che le tastiere, suona anche il basso. Curiosamente “Killer” porta la firma anche di Chris Smith, percussionista, membro del primissimo nucleo dei Van der Graaf.