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Un artista ha sempre qualcosa da imparare. Sia dalla musica che dalla vita. Per non morire. Questo è il messaggio che sembra provenire dall’ultimo disco di Eric Clapton, “Reptile”, un progetto molto personale, intimistico, eppure non triste ed accorato come il penultimo “Pilgrim”.
Ma veniamo alla musica. Per chi pensa che il blues sia ripetitivo (e soprattutto chi pensa che Clapton sia ripetitivo), questo lavoro potrebbe rivelarsi una sorpresa. Infatti, “Reptile” rappresenta l’incontro tra “Slowhand” e un universo apparentemente lontano anni luce dal nostro come la bossanova. Folgorato dalla magia di Joao Gilberto, l’ultima sfida di questo cinquantenne che ha avuto tutto e a cui è stato tolto molto, è quella di sperimentare nuovi linguaggi espressivi, nuove atmosfere per traghettare le proprie emozioni. E la bossanova sembra essere la lingua ufficiale della malinconia e della nostalgia, sensazioni languide difficilmente esprimibili a parole.
L’incipit dell’album ci dà subito un assaggio di ciò che ci aspetterà in seguito. “Reptile”, brano d’apertura interamente strumentale, è una piccola delicata samba con cui Clapton si sgranchisce. Intendiamoci, questo non è un album di bossanova. Clapton è e rimane un blues man, e ce lo ripete con insistenza in ogni suo nuovo lavoro. Dopo la parentesi latino-americana, l’album si dipana lungo classici del blues e rhythm and blues, con brani di J.J. Cale (“Travelin’ Light”), Ray Charles (“Come Back Baby”), Stevie Wonder (“I Ain’t Gonna Stand For It). Onestamente, l’anima blues del disco nulla sembra aggiungere a tutto ciò che già è stato ascoltato di Clapton: tecnica parsimoniosa, feeling ricercato più nei silenzi che nelle note, suono morbido. Qualcosa in più si riesce a sentire nelle parti vocali, in cui Clapton sembra aver acquistato una maggior consapevolezza e maturità, sia nelle interpretazioni blues che nelle inusitate ballate latineggianti, in cui il timbro di “Slowhand” cambia completamente, come ad esempio in “Believe In Life”. In questo viaggio, il chitarrista inglese viene accompagnato da una band di immenso talento e dall’affiatamento ormai consolidato, composta da Billy Preston, Andy Fairweather Low, Nathan East, Steve Gadd, Joe Sample.
Il disco chiude con “Son & Sylvia”, dolcissima ballata strumentale dai toni romantici e vagamente latineggianti; le atmosfere ricordano quelle del Pat Metheny più orecchiabile. Un ultimo modo per ricordare al proprio pubblico che un artista, forse solo un vero artista, deve mettersi continuamente in gioco, confrontandosi con la propria ispirazione, in qualunque direzione essa vada.