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Senza ombra di dubbio, uno dei dischi più belli della storia del rock. Basta solo dare un’occhiata a qualsiasi classifica All Times, di qualsiasi rivista musicale, “Forever Changes” è lì, sornione. Sì, sornione, perché a distanza di ormai 35 anni dalla sua uscita, è un disco che non si è fatto conoscere per quello che in realtà merita e che ha raggiunto, sempre sornione: l’Olimpo Musicale.
A riproporre le note immortali della creatura di Arthur Lee ci pensa questa volta la Rhino, da anni specializzata in meritorie ristampe. Le originali 11 tracce sono completate da alcuni outtakes, demo ed alternate mix, non aggiungendo però molto di più ad una trama già portentosa, dove ogni ascolto avvicina ai limiti della perfezione (altrui), rimanendo soggiogati dalla successione impressionante dei brani e dalle loro emanazioni magiche e misteriose. Lee e Bryan Maclean (autore delle eccezionali “Alone Again or” e “Old Man”) sembrano riuscire ad afferrare l’ispirazione più nitida e pura e la donano all’umanità.
Per provare a descrivere il Love sound potremmo pescare una definizione di folk rock psichedelico, accompagnato dalla voce tremula di Lee (fra l’altro eccelso chitarrista che collaborò con Hendrix durante il duro apprendistato di Jimi) che recita poetiche quanto criptiche liriche. Si narra che al momento di entrare in sala d’incisione la maggioranza dei membri del gruppo fossero completamente fatti di stupefacenti, totalmente incapaci di intendere e di…suonare. Da qui la decisione del produttore ed ingegnere del suono Bruce Botnick (lo stesso dell’altra grande e ben più nota band losangelina, i Doors) di ingaggiare alcuni session men e di supportare alcune canzoni con una vera e propria orchestra di archi e fiati. Se in molti casi una situazione simile sarebbe il preludio ad un insignificante easy listening, in “Forever Changes” è la chiave per l’entrata dentro un paradiso di arrangiamenti via via lussureggianti, sincopati, come se Bacharach (del quale avevano già interpretato due anni prima la bellissima “My Little Red Book”) si fosse convertito alla corrente hippy (un esempio lampante è “Maybe the People…”).
Nel booklet interno di 24 pagine leggiamo i ricordi degli stessi Lee e Maclean, del bassista Ken Forssi, di Botnick e del supervisor e fondatore dell’Elektra, Jac Holzman. Magari leggiamoli mentre l’album si dipana avvolgente ed abbandoniamoci all’atmosfera di confine messicano presente nella opening track, alla sottile commozione davanti alla composta tristezza di “Old Man”, all’ammirazione incondizionata davanti ad un capolavoro come “The Red Telephone”. Perfino i Beatles, in quello stesso anno, ci davano questo consiglio: “All You Need is Love”…