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Phoenix, ovvero la grande mistificazione. Ascoltando il loro disco, “United”, la memoria affonda nel suono dell’America di fine anni ’70, in cui il rock si bagnava di spruzzi jazz e soul, alternandosi a sfumature country. E qui sta l’inganno: non solo i Phoenix non provengono dagli anni ’70, ma non vengono nemmeno dall’America, bensì dalla Francia, Paese che con il rock non è mai stato molto amico.
Una volta superato il piacevole stupore, ci si può abbandonare alle note di questo album assolutamente delizioso e godibilissimo già dal primo ascolto. Ogni brano ha un gusto e un colore assolutamente originale e perfettamente riconoscibile.
Dopo l’intro strumentale, si parte con uno dei singoli tratti dal disco, “Too Young”, brano dall’impatto sicuro, grazie alla sua semplice struttura e al suo ritmo trascinante, sostenuto da quel suono di synth “d’annata” che scandisce il pezzo. I riferimenti più vicini sono proprio i gruppi pop-jazz-rock americani di fine anni ’70 primi anni ’80, come Steely Dan, Supertramp e simili, la cui immediatezza e orecchiabilità dei brani andava d’accordo con un’estrema cura per i suoni e gli arrangiamenti.
E la musica va avanti, con brani preziosi e dalla bellezza indiscutibile; “Honeymoon”, dolce ballata dal sapore country, con un arpeggio, nel ritornello, in grado di strappare le lacrime anche ai fans più esigenti dei Genesis; “If I Ever Feel Better”, grandioso funky-dance trascinatore di folle, con quella chitarra dalla grana sottile appena percettibile e la batteria secca come non mai, come la disco music comandava, a sostenere “quel ritmo incalzante di cassa e rullante” a cui è impossibile resistere.
Ma pare che i Phoenix non si accontentino di sembrare una revival band; oltre ad altri brani meravigliosi come “On Fire”, bellissima canzone rock-soul che sembra partorita da Stevie Wonder, con quel suono di clavinet che fa tanto anni ’70, o come “Embuscade”, raffinato brano pop-jazz strumentale, i quattro francesi provano altre strade, come l’incursione nel punk con “Party Time”, a dire il vero episodio tra i meno felici nel disco, o la giustapposizione di più stili come in “Funky Squaredance”, grandiosa suite della durata di dieci minuti, in cui si passa dallo “slow tempo” country a cui già ci avevano abituato, a stacchi techno dance, per poi chiudere con un’esplosione heavy metal in cui il chitarrista dà libero sfogo alla sua vena “vanhaleniana”.
Niente da dire; un disco ineccepibile, come pochi ancora ne escono, e un gruppo che gioca con la tradizione per farla propria e per restituire qualcosa di assolutamente interessante e maledettamente piacevole.