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Si finisce col fare l’abitudine alle periodiche uscite di Steve Wynn e a porvi niente di più che un orecchio distratto. Perché il musicista americano, con alle spalle una parte da protagonista nel rock americano degli anni ottanta con i grandi Dream Syndacate, ha spesso stentato a trovare la strada giusta in più di dieci anni di carriera solistica. Così si finisce per non aspettarsi più molto da un personaggio come Wynn. Lo si tratta con sufficienza, sapendo già cosa aspettarsi da lui. Sono altre le novità, altre le urgenze che appassionano. Poi arriva la sorpresa, si ascolta stupiti l’incipit di questo nuovo lavoro e immediatamente ci si accorge che le cose questa volta funzionano alla perfezione. “Don’t Call It a Miracle/ It Happens All the Time” canta Wynn sopra le chitarre sporche, prima che il pezzo si illumini in uno splendido ritornello. Un invito a non stupirsi più di tanto. Perché se il talento di Steve Wynn non è mai stato in discussione, non ci aspettava certo un disco così vitale. E invece l’ispirazione migliore sembra essere tornata d’improvviso. Sarà stato forse il deserto vicino a Tucson, Arizona, dove sono avvenute le registrazioni a infondere tutta la propria magia ai pezzi. O forse sarà stato l’aver ritrovato l’amico Chris Cacavas, un tempo con i Green On Red, e aver coinvolto Howe Gelb dei Giant Sand e John Convertino, anch’egli Giant Sand e Calexico. In ogni caso “Here Come The Miracles” suona come un ritorno in grande stile per Steve Wynn.
Le canzoni parlano di confine, deserto e sabbia, viaggi e strade, solitudine e speranze. E il suono è aspro, polveroso, le chitarre taglienti e sporche. Il disco è pieno di ballate ruvide, la bellissima “Sustain”, introdotta dall’armonica di Howe Gelb, e ancora “Blackout”, “Let’s Leave Like That” e la sofferta “Charity”, e di dolci brani che ricordano i R.E.M. e i Byrds, “Shades Of Blue”. Stupisce trovare i ritmi infuocati tra il Bob Dylan elettrico di “Highway 61 Revisited” e l’irruenza punk degli X di “Southern California Line”, “Crawling misanthropic blues” e di “Stange New World”, così vicina al blues. E poi ancora si incontrano momenti meno consueti, come la delicata “Why Don’t You Come Down”, affidata al piano di Chris Cacavas, in bilico tra il Lou Reed romantico di “Satellite of Love”, Beatles e Beach Boys, e lo straniante incedere tortuoso di “Topanga Blues”, vicino al Tom Waits più sghembo. Un disco che spazza via ogni dubbio. E si congeda con una canzone leggera e spensierata, “There Will come a day”, un dolce saluto. Non resta che credere al miracolo.