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Il punk e la new wave avevano fatto piazza pulita dei cliché accumulati dal rock durante gli anni ’70: dalla tirannia dei precetti del blues a certi eccessivi sconfinamenti nel jazz e nella classica, la musica del re Elvis si era un po’ affaticata a furia di crisi di identità.
Alla fine dei ’70 c’era una “tabula rasa”, una pagina bianca da cui era necessario ripartire e raccontare di nuovo il rock. Chi ne avrebbe approfittato? I Talking Heads erano un promettente gruppo della scena new-wave newyorkese, con all’attivo due album scabri e spigolosi come il loro leader, l’iperattivo (in senso clinico) David Byrne. Fu lui a incontrare, un giorno, il signor Brian Eno, eroe rinnegato del glam rock con i Roxy Music, e all’epoca musicista intellettuale impegnato nell’avanguardia della musica d’ambiente: il primo era alla ricerca di una via d’uscita dall’angusto spazio dell’art-rock warholiano, il secondo aveva bisogno di tornare con i piedi per terra lavorando con una vera band come ai vecchi tempi.
Il primo risultato fu un grande album, “Fear Of Music” (1979), e fu l’inizio della carriera di Re Mida di Eno come produttore, il quale si convinse a tal punto delle possibilità degli Heads da decidere di scrivere e suonare con loro nell’album seguente.
“Remain in Light” sembra quasi nato a tavolino, partendo da una domanda degna de “Il mondo di Quark”: è possibile usare gli strumenti del rock per superare il rock stesso, e con esso il blues e la musica nera americana da cui è nato, per arrivare direttamente alla fonte del musica come ritmo e vibrazione, ad un’Africa mitica che vive nell’inconscio di ciascuno di noi?
David e Brian ci provano, e cominciano con lo stendere tappeti ritmici in cui ogni strumento è suonato in modo percussivo: riff smorzati di chitarra, basso in slap, percussioni acustiche ed elettroniche, sintetizzatori… ognuno si dimentica delle note e diventa puro ritmo, pulsazione vitale: basta sentire l’apertura di “Born Under Punches”. Su queste basi, che sembrano ripetersi all’infinito, le voci si alzano e si rincorrono isteriche, a loro volta scandite come in una danza tribale (“The Great Curve”, “Houses in Motion”).
E quando la trance ritmica è completa, e tutto suona solo come ritmo e pulsazione, arriva la melodia, che sembra alzarsi come una preghiera o un’invocazione (“Seen And Not Seen”, “Listening Wind”), una litania di chissà quale culto primitivo (“The Overload”); oppure la superficie dei ritmi viene squarciata dalle urla della chitarra folle di Adrian Belew, che irrompe come uno mostro elettrico risvegliato dai rumori di David, Jerry, Tina, Chris e del loro sciamano Brian.
I testi, opera di Byrne e Eno, gettano sguardi chirurgici sugli omini che abitano le metropoli occidentali, spogliandoli dei loro abiti, automobili, accessori e ammennicoli vari, come nel singolo “Once in A Lifetime” (l’unica cosa vagamente radiofonica del disco): è come se migliaia di impiegati, manager e yuppies si riversassero nudi e impazziti a ballare per le strade di Manhattan.
L’impressione che si ricava da questo disco è emozione orgiastica, puro trasporto: i Talking Heads si tengono ben lontani dallo scadere nell’antropologia da dilettanti, o in ingenuità tipo coretti di “ugha-ugha”. Al contrario, “Remain in Light” è uno dei precursori dell’interesse per i suoni etnici, quelli veri, che fiorirà negli anni ’80.
Ed è purtroppo un caso isolato nella discografia dei Talking Heads: le vendite non eccellenti li spinsero verso altri lidi, mentre Eno, forse logorato dall’egocentrismo di Byrne, non collaborò più con il gruppo. A parziale consolazione, resta un’altra piccola perla, “My Life in The Bush Of Ghosts”, che i due eccentrici musicisti realizzarono contemporaneamente a “Remain in Light”.