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Questo fine 2000 ha riservato molte sorprese, per quel che riguarda i ritorni sulle scene. Ora tocca a Joe Jackson che, con il secondo episodio di “Night And Day” (1982), torna a far vivere grandi emozioni. Un musicista completo, un artista che non solo sa far suonare qualunque cosa gli capiti per le mani, ma che ha fatto della coralità degli strumenti (piano, percussioni, fiati, violini) una caratteristica essenziale, maniacale, quasi da maestro d’orchestra.
L’utilizzo di pochissime sovraincisioni, la ricerca della perfezione dei suoni, ottenuta con un particolare posizionamento dei suoi musicisti all’ interno della sala di incisione (che deve rispondere a determinate caratteristiche che lo stesso J.J. verifica), la grande cura per i testi, che spesso parlano di amori impossibili o di paesaggi surreali, sono tutte qualità che gli conferiscono grande importanza nel panorama musicale odierno. Questo artista inglese trapiantato a New York, vicino ai venticinque anni di carriera, dedica almeno tre canzoni di quest’ultimo lavoro alla grande metropoli americana dalla quale è stato ormai adottato. La copertina mette in risalto una splendida immagine delle Twin Towers, osservate all’interno di un taxi dallo stesso Jackson. Dieci canzoni per 46 minuti da ascoltare fino alla nausea.
Si comincia con “Prelude”, piccolo motivo con la ritmica lasciata al solo charleston e la melodia affidata ad un leggerissimo violoncello; la suspance viene interrotta bruscamente da “Hell Of A Town”: l’inferno della “Grande Mela” sottolineato dal celeberrimo fumo che esce dai tombini; con un tempo di violini sincopato ed una forte presenza di virtuosismi al pianoforte, l’artista descrive gli angoli della città che, di notte, diventa una vera e propria giungla. “Stranger Than You” è la sua classica ballad, strepitosa. Sembra di osservare personaggi usciti da un romanzo di Daniel Pennac, il testo mette in evidenza la grande eterogeneità di N.Y.C., con i tanti individui stravaganti che la abitano. In “Glamour And Pain”, il posto è ceduto a Dale De Vere, che esegue un ottimo pezzo in chiave “disco” anni ’70, parlando delle delusioni di una donna insoddisfatta della sua vita. C’è spazio anche per Marianne Faithfull, alla quale J.J. fa eseguire una dolcissima “Love Got Lost”. “Happyland”, con un suono che non si discosta molto dalla “salsa”, che il nostro interpreta alla grande, e “Stay”, chiudono quest’ultima magia di un artista di grande carattere e spessore.