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Ascoltando il nuovo disco di Vasco Rossi, “Stupido hotel”, è inevitabile nutrire delle perplessità. Un disco troppo simile al passato prossimo e troppo diverso dal passato ormai remoto. Niente di che stupirsi. Vasco non è mai stato un grande innovatore dal punto di vista musicale; si è sempre appropriato di stili e generi che andavano per la maggiore, piegandoli alle necessità dei messaggi (questi sì realmente unici) che intendeva comunicare. Attraversando i periodi punk-rock inglese dei primi dischi, sfiorando la disco-pop della metà degli ani ’80, beandosi della maturità artistica ed interiore raggiunta con produzioni più “cantautorali”, fino ad arrivare ai giorni nostri, con sonorità e liriche “volgarotte”.
Volgarotto. Questo è l’aggettivo forse più ricorrente che sgorga dalle note di “Stupido hotel”. In questo disco Vasco ha accentuato la sua maschera caricaturale di adescatore di ragazzine facili che “se la tirano”, con risultati quantomeno grotteschi.
La prima canzone, “Siamo soli”, è il primo singolo tratto da questo disco. E qui inevitabilmente le atmosfere, le sonorità non possono che riportare al passato recente di brani come “Io no”. Brano piacevole, a parte il tormentone delle frasi fatte di Vasco Rossi, con le quali il nostro chiude il 50% delle sue strofe, tipo “…Hai ragione te”.
Ed eccoci finalmente alla Fiera della Porchetta con “Ti prendo e ti porto via”, storia di un corteggiamento non proprio figlio del dolce stil novo. La base è di quelle che si ricordano e che invitano al salto, in stile “Rewind”, con tanto di ritornello alla Village People. Degne compagne sono canzoni come “Io ti accontento”, pezzo duro ancora dedicato alla ritrosia di una donna, coronato da incursioni rap, o “Stendimi”, in cui il nostro si confronta con l’ilarità di una donna nei confronti della sua prestanza fisica. In effetti, il tema del sesso, così ricorrente e così esplicito, proveniente dalla bocca smargiassa e guascona del Blasco, decisamente sfornito di “physique du role”, risulta essere poco credibile e quindi sempre molto ironico. C’è da chiedersi se l’intento fosse questo. Poco importa.
I momenti intimistici, da cantautore, si sono ridotti all’osso in questo ultimo lavoro. Canzoni come “Standing ovation”, “Stupido hotel” “Tu vuoi da me qualcosa” sono eterni dialoghi con una donna immaginaria e talvolta irraggiungibile, a cui si racconta la propria vita fatta di vizi tanti e affetti pochi. La voglia di raccontare, di giocare con i personaggi, che aveva trovato un’espressione riuscita in canzoni come “Sally”, si è ridotta a pochi e scarni temi ormai riproposti fino alla nausea.
Degno di nota è il brano di chiusura, “Canzone generale”, con le sue percussioni e atmosfere in stile “world music”, con cui il Blasco si prende gioco dei suoi colleghi cantautori, così “ingombranti” nelle loro canzoni (Fossati in primis, ovviamente).
Un disco certamente ben fatto, grazie anche alla presenza dell’ormai insostituibile Stef Burns alla chitarra e alla garanzia di Vinnie Colaiuta alla batteria. Lascia comunque un po’ di amaro in bocca. Fa dispiacere vedere un artista che, con la scusa di essere sempre stato “out” rispetto allo star system istituzionale, oggi ci sguazzi allegramente facendo finta di “combatterlo dal di dentro”. Non dobbiamo rimproverare nulla a Vasco. Ha insegnato ad una generazione quanta America ci può essere nelle polverose e sempre uguali strade dell’Emilia, e quanto è importante non temere di sentirsi “diversi”. Oggi si affacciano altri maestri, più o meno cattivi. Noi ci teniamo il Vasco, più imbolsito e arrapato che mai. L’importante è non prendersi mai sul serio.