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E’ conosciuto come “Il disco del salvadanaio” per via della copertina e rappresentò nel 1972 l’impetuoso ingresso del Banco nel mondo del rock progressive; forse l’elemento caratterizzante di questo disco è la scelta del linguaggio, aulico, letterario.
Musicalmente non c’è forse unitarietà fra i vari brani, ma sono subito esplicitate le caratteristiche salienti della musica del Banco: alternarsi di ritmi a volte selvaggi (ma con ascendenti non nell’hard rock, bensì in alcuni momenti illuminati della musica classica del ‘900) e momenti di lirismo ben resi dalla particolare voce di Francesco Di Giacomo, uso ampio di tastiere (grazie alla presenza di una coppia perfettamente complementare di tastieristi: i fratelli Nocenzi) ed in definitiva ricchezza di timbri e di dinamica musicale.
Il recitativo iniziale evoca l‘Ariosto, ma in quel “Ciò che si vede è” si afferma l’intenzione di usare il medioevo non come un qualcosa di fine a se stesso, ma come una metafora delle vicende umane, sempre attuali.
Ed in “R.I.P.” (che una recensione del 1975 già definiva come “immortale”) troviamo una condanna della guerra espressa in un modo indimenticabile: siamo proiettati nel pieno di una furibonda battaglia medievale e l’incalzare del ritmo dà proprio l’idea della terribile situazione finché una scala ascendente di pianoforte non conduce improvvisamente in un’altra dimensione umana e musicale che è quella del riposo, della morte, o meglio di quella dimensione indefinibile (e te credo!) che precede il trapasso.
L’altro brano forte della prima facciata è “Metamorfosi”: una bella cavalcata sonora con una parte centrale pianistica dal vago sapore jazz ed un finale cantato breve ma intenso.
Il vero piatto forte del disco è dato però dalla lunga suite (oltre 18 minuti) di “Il giardino del mago”: non ci sono parole da aggiungere, va solo ascoltata con molta attenzione. Attenzione è la parola giusta: la musica del Banco non è musica leggera, adatta a sottofondi musicali: richiede concentrazione, ma dopo un po’ prende…nel profondo.