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Un nome del genere ti fa sorridere immediatamente. E ti aspetti tutta un’altra cosa rispetto a quello che ti trovi ad ascoltare. Il secondo lavoro del “Gatto Ciliegia Contro Il Grande Freddo”, trio di Torino, arriva con delle tastiere che compaiono e scompaiono e subito lasciano spazio alla musica, chitarre elettriche e acustiche che si intrecciano a disegnare trame affascinanti, mentre il ritmo è inevitabilmente basso. Un po’ come accade in un altro bel disco italiano uscito di recente, “The Rise and Fall of Academic Drifting” dei Giardini di Mirò. A testimoniare che c’è vita nei sotterranei italiani, dove nascono forse le cose più belle e eccitanti della musica nazionale. Poche parole e pezzi strumentali avvolgenti, con nella mente Tortoise e Mogway certo, ma con personalità e creatività. Tanto che l’atmosfera che si respira qui è più asciutta, più scarna. Come se questi pezzi non fossero altro che racconti di vita comune, istantanee dell’inquietudine che ognuno si porta dentro. Da cui affiorano rumori di fondo come gli squilli di telefono che aprono e chiudono l’atmosfera sinistra e scura de “La Coppa Davis del 1976”. La voce è quasi assente. Quando compare è per cantare un timido coro nel finale della scarna e fascinosa bossa elettrica “Tornetti tropical”. O magari recita versi di disagio, un po’ come accade per i Massimo Volume, nell’inquietante “Tutto è fuori posto”, in cui le parole arrivano da lontano, disturbate, in sottofondo. Si incrociano poi splendide aperture melodiche, “Non c’è più caffè”, “West Side Story #2” e “West Side Arp” e momenti di elettronica in bassa fedeltà “My Friends”. E poi emergono attimi di dolcezza inattesi, il violoncello che dona splendore alla suggestiva “Qui c’era qualcuno”, o le esplosioni elettriche di “Tell me something”, che termina con distorsioni e riverberi. Un fascino felino assolutamente seducente.