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Biografia
Il 9 ottobre del 1978 muore all’ospedale di Bobigny, un sobborgo di Parigi, Jacques Brel. Un cancro al polmone lo schianta definitivamente, dopo una lunga lotta, a 49 anni. Ma chi è Jacques Brel? Se qualcuno (gli Stadio) ha già retoricamente posto la domanda su “…chi erano mai questi Beatles?…”, è altamente probabile che il nome di Brel dica poco o niente alle generazioni italiche succedutesi negli ultimi vent’anni. A volerla facilmente sbrigare si può asserire che JB, insieme a George Brassens, è il più influente cantante/cantautore che abbia calcato le scene francesi nella seconda metà del secolo scorso. Meglio comunque approfondire quella che potrebbe sembrare una semplice boutade, intrecciando cenni biografici, opere e poetica della parabola umana ed artistica di questo magnifico chansonnier.
Jacques Brel nasce l’8 aprile 1929 a Bruxelles, da padre fiammingo ma francofono e madre con sangue francese e spagnolo nelle vene, retaggio del dominio castigliano del XVI e XVII secolo; il rapporto con la parte fiamminga del suo paese sarà sempre problematico ed altalenante (memorabili le scudisciate satiriche de “Les Flamandes” e “Les f…”) mentre la figura di Don Chisciotte ed atmosfere spagnoleggianti ritorneranno sovente nell’immaginario creativo dell’artista. Il padre gestisce una fabbrica di cartoni, nella quale il giovane Brel presto si sentirà, parole sue, “encartonnée”: comincia infatti a lavorare come impiegato, rinunciando nel frattempo anche agli studi. Così, più che all’ambito scolastico o familiare, Jacques deve la sua prima rilevante formazione culturale alla Franche Cordée, movimento giovanile di ispirazione cristiano-sociale: nella sua prima produzione s’incapperà sovente in spunti di religiosità e di umanitarismo evangelico, che via via sfumeranno e si evolveranno in un esistenzialismo umanistico alla Camus, in un socialismo libertario e anarcoide, decisamente antimilitarista. Ingabbiato nell’azienda paterna da un lato, sensibile e impegnato dall’altro, Brel trova sfogo alla sua personalità comunicativa e anticonformista in numerose recite teatrali e soprattutto in canzoni di sua composizione, eseguite in cabaret locali, feste studentesche e da ballo. In un arco di tempo che va dal 1948 al 1953 JB si costruisce un piccola ma solida fama nella sua città natale; nel febbraio 1953 incide il primo disco, un 78 giri con due canzoni: “La foire” e “Il y a”. Fortunatamente queste due tracce vengono ascoltate da un celebre scopritore di talenti, Jacques Canetti, fratello del più famoso Elias. Canetti significa grande occasione, Canetti significa Parigi. In un attimo Brel si lascia tutto alle spalle, lavoro, ricchezza, moglie e figlie, quell’imborghesimento che permea la società della capitale belga e del quale lui si farà sovente beffe in memorabili canzoni (una fra tutte, “Les Bourgeois”), e si trova a debuttare nel locale dello stesso Canetti, il Trois Baudets, dove qualche tempo prima anche Brassens si era presentato in grande stile al pubblico della Ville Lumiére. Brel rimarrà in cartellone per cinque anni, superando critiche feroci e le solite facezie sui belgi, mangiando per mesi solo sandwich al camembert e pommes frites, alternando quella esibizione contrattuale ad altre, in un attivismo frenetico che lo porterà a esibirsi in sette locali per notte, dalle otto di sera all’alba. Costa così sudore e sangue la pubblicazione del primo album, “Grand Jacques” (1954); fortunatamente egli viene notato, soprattutto da Juliette Gréco, dea di Saint-Germain-des-Prés e della corrente esistenzialistica, che registra una sua canzone, “Le diable”. L’incontro con la Gréco è fondamentale per il belga, il quale comincia una collaborazione straordinariamente fruttifera con Gérard Jouannest, pianista e compagno della cantante, e con l’arrangiatore François Rauber, entrambi spesso decisivi nell’economia della melodia breliana. Nel 1957 tutta la Francia si accorge di quel ragazzo alto, allampanato, con dentoni da cavallo: con “Quand on n’a que l’amour” vince il Gran Prix du Disque e le tournée diventano nazionali. Nel 1959 è la vedette all’Alhambra e da Bobino e nel ’61 il patron dell’Olympia, Bruno Coquatrix, decide di rimpiazzare l’improvviso forfait di Marlene Dietrich con Jacques Brel. Quella che poteva sembrare una scelta alquanto azzardata proietta il cantante nel firmamento della chanson française ed internazionale: l’uomo dà tutto sé stesso, ad ogni concerto, oltre ogni limite. Fino al 1966 il ritmo di esibizioni è sovrumano, arrivando a volte a 350 serate l’anno…E’ proprio nel ’66 che Brel decide inopinatamente (almeno per il costernato pubblico) di dire basta agli appuntamenti live: sarà uno dei pochissimi musicisti che non tornerà mai sulla propria decisione. Jacques è prosciugato – lo si può immaginare! – e nel contempo voglioso di emozioni nuove, confacenti ad una personalità sfaccettata ed inquieta come la sua. Il teatro diventa il primario interesse: nel 1968 riadatta una commedia americana, “L’uomo della Mancia”, prendendo per sé ovviamente il ruolo di Don Chisciotte, una parte calzante a meraviglia sul già forte idealismo breliano e sulla comunanza tra le due figure, magre, stralunate, affaticate, sofferenti, scavate da qualche malattia fisica e del vivere. La pièce teatrale non avrà un grande successo e ciò farà propendere Jacques per il definitivo addio al palcoscenico e per l’immersione quinquennale nel mondo della celluloide, come attore e regista. Delle performance attoriali si ricordano quelle ne “La Bande à Bonnot” e ne “L’emmerdeur”, mentre commercialmente fallimentari si rivelano le due esperienze alla regia, “Franz” e “Far West”. Volatilizzatasi anche la chance cinematografica, nel 1974 assistiamo al secondo addio alle scene, questo molto più radicale ed esistenziale: Brel si lascia alle spalle ogni rapporto col mondo dello spettacolo, lascia Parigi, la Francia e i propri affetti. Grazie ai suoi brevetti aeronautici e marini, prende a vagabondare per cielo e per mare. Sorvola l’Europa, novello Saint-Exupéry (mito che lo aveva da sempre accompagnato), poi con un veliero di 18 metri, l’Askoy, parte per un giro del mondo che si ferma a metà strada, in Polinesia. Jacques si stabilisce definitivamente ad Atuona, un villaggio di Hiva Oa, isola dell’arcipelago delle Marchesi, lo stesso sito dove si esiliò Paul Gauguin. In quelle isole lontane Brel non cerca un eremitaggio, ma un rapporto con una realtà totalmente diversa, una società sconosciuta e per certi versi incontaminata. Egli s’impegna a combattere l’isolamento, offrendo il proprio bimotore per il collegamento postale tra le isole più distanti; saltuariamente allestisce per i locali spettacoli e cineforum. Un anno prima della morte, l’ultimo coup de theatre: torna a Parigi in gran segreto e incide in presa diretta diciotto canzoni, dodici delle quali saranno pubblicate su un album atteso da quasi dieci anni, un album chiamato sobriamente “Brel”. Il disco è splendido, più di un milione di copie vengono vendute in prenotazione e settecentomila direttamente nei negozi al primo giorno di uscita! Incurante del successo commerciale, torna alla sua isola, per la penultima volta. L’ultima sarà da morto nell’ottobre del 1978, volando dall’ospedale di Bobigny al cimitero di Hiva Oa, vicino a Gauguin.
La morte non potrà comunque cancellare la potenza di un artista completo, cantante, mimo, teatrante. La sua voce è impetuosa, sonora, nervosa, ora impettita, ora sinuosa, ora saltellante. Il canto è terso, nitido, totalmente descrittivo e funzionale al corpo testo-melodia. E poi quella incredibile gestualità, quelle lunghe braccia che si muovono dando vita ed espressione a personaggi – attraenti o repulsivi – che non vengono volutamente descritti in modo dettagliato attraverso il testo. Jacques Brel ha scritto canzoni straordinarie, eterne, tra le quali “Ne me quitte pas”, “On n’oublie rien”, “La valse a mille temps”, “Marieke”, “La chanson des vieux amants”, “Jef”, “Amsterdam”, “Jojo”, “La ville s’endormait”. In esse e nel resto della produzione si alternano temi contrastanti, ironia, sarcasmo, dolcezza, amour fou, anarchia, amicizia e tenerezza, quest’ultimo probabilmente il sentimento più caro al cantautore, presentato in modo mai sdolcinato e carico di espressività, ma candidamente, quasi con distacco. Gioie e dolori sono inglobati in strutture sonore che paiono moti perpetui: la tecnica del crescendo-decrescendo in Brel è raffinata, selvaggia ed erotica al tempo stesso. Ci sono impennate in cui la musica va quasi verso l’alto, come le cattedrali gotiche che spuntano da quella terra piatta e da lui tanto amate. Tali sussulti sovente appartengono a composizioni dove il rapporto con la morte (o con cose o situazioni destinate a concludersi, stagnanti, putride) è palese e quasi scandaloso. Brel affronta il tema della morte lungo tutta la sua carriera, la evoca, la sfida, è un’amica-nemica innalzata a sublimazione di vita: tutta l’esistenza non è altro che un “arrivare” a quel punto. Jacques le va incontro cantando, laggiù a “Les Marquises”, dove “per assenza di vento il tempo si immobilizza, dove “si parla della morte come tu parli di un frutto”.
Discografia
Intégrale Jacques Brel – Grand Jacques (10 CD, Phonogram-Barclay, 1988)
CD 1. Grand Jacques
CD 2. La valse à mille temps
CD 3. Les Flamandes
CD 4. Le plat pays
CD 5. Jef
CD 6. J’arrive
CD 7. Les Marquises
CD 8. Brel en public : Olympia 61
CD 9. Brel en public : Olympia 64
CD 10. Ne me quitte pas