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Una abbondante dose di hard rock zeppeliniano, mescolata ad un generoso bicchiere di blues, un po’ di polvere di Pietre Rotolanti e una bella spolverata di funky alla James Brown, il tutto frullato a massima velocità: ecco a voi la ricetta esplosiva con cui gli Aerosmith furoreggiarono negli anni ’70. Del resto proprio le molteplici influenze furono inizialmente un po’ la condanna del giovane Steven Tyler e i suoi: nonostante già i primi due album (“Aerosmith”, 1973 e “Get Your Wings”, 1974) mostrassero energia e talento in quantità, il quintetto di Boston faticò a scrollarsi di dosso etichette quali “i Led Zeppelin americani” (se si notavano i micidiali riff di Joe Perry) o “i Rolling Stones made in USA” (se si guardavano le labbra di Steven). Le detonazioni di “Toys in the Attic” misero fine a queste confusioni: da questo album in poi il buffo marchio alato degli Aerosmith non rischiò più paragoni scomodi, e diventò uno dei blasoni più prestigiosi del circo rockettaro.
In appena 9 tracce gli Aerosmith recuperano il bagaglio dello hard blues alla Yardbirds/Zeppelin, si proiettano verso quello che di lì a poco verrà chiamato “heavy metal”, si concedono aperture “sudiste” e rithm’n’blues, si lanciano in inediti e deflagranti connubi fra rock e funky. L’inizio è di quelli che lasciano il segno, anzi il livido: la title-track si abbatte sull’ascoltatore, velocissima e avvolgente con le voci che disegnano una ipnotica spirale, vestendo di colori psichedelici un macigno di rock duro con riff da manuale. E’ una delle cose più puramente hard dell’album, assieme alla granitica “Round and Round”; ma già dal secondo brano l’album si tinge di sfumature differenti, sempre su tonalità molto sature: “Uncle Salty” si muove su pigri accordi da southern rock, scabri ed efficaci per sostenere una cruda storia di solitudine; “Adam’s Apple”, aperta da un memorabile riff di Brad Withford, è un rovente rock-blues che Steven sfrutta da par suo per celebrare il peccato e colei che l’ha inventato. I Toxic Twins e i loro compari dovettero però pensare che la temperatura non fosse ancora abbastanza alta, e così ci infilarono “Walk This Way”: inno universale alla pomiciata liceale e agli ormoni in libertà, molto più che suggeriti dall’irresistibile andamento funkeggiante, è uno dei classici assoluti della band, rinverdito negli anni ’80 dalla cover hip-hop dei Run DMC. Gli fa da degno contraltare “Sweet Emotion”, uscita quasi per caso da una ficcante frase di basso di John Hamilton e divenuta immancabile negli show dal vivo. Irresistibile lo swing di “Big Ten-Inch Record”, e il buon Tyler fa in tempo a prendersi un po’ di spazio tutto per sé con la tirata “No More No More” e la ballad finale “You See Me Crying”.
Fiuuu, che botta. Ma gli Aerosmith dell’epoca, forti dell’energia e dell’incoscienza della gioventù, dopo appena un anno riuscirono a sfoderare un altro album capolavoro, “Rocks”, e divennero tra i gruppi più influenti del panorama hard rock, dagli anni ’70 fino a Guns’n’Roses & c. I riconoscimenti agli Aerosmith degli anni ’70 non sono comunque circoscritti ai fan del metallo pesante: la grande Joni Mitchell li definì l’incarnazione di ciò che più amava nel rock; e oltre alla cover dei Run DMC va ricordata la “Toys in the Attic” che i R.E.M. inserirono nel loro “Dead Letter Office” (1988).