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Dopo la pubblicazione di “IV”, per i Led Zeppelin era giunto il momento dei bilanci. La fortunata miscela di power-rock, blues e folk aveva trovato le sue massime espressioni nei primi quattro album; tornare indietro era impossibile, la strada era irrimediabilmente sbarrata da capolavori immortali che impedivano di guardare ad un passato troppo luminoso e troppo recente. Occorrevano formule nuove, forse rischiose, ma comunque necessarie.
Queste riflessioni (e anche i frenetici impegni dal vivo) tennero la band lontana dagli studi di registrazione per ben due anni, fatto del tutto nuovo per il gruppo vista la forsennata attività dei due anni precedenti. Il silenzio venne rotto nel 1973 con “Houses Of The Holy”, primo disco dei Led Zeppelin con un vero e proprio titolo. Ma non solo nel titolo si scoprono le differenze con il passato. John Bonham più tardi spiegherà che questo album probabilmente poteva essere compreso solo dopo qualche anno. Purtroppo tale rivalutazione non è ancora realmente avvenuta; il disco sicuramente vede per la prima volta un netto calo di ispirazione ed intensità, soprattutto se confrontato con i lavori precedenti. Intendiamoci: “Houses Of The Holy” non è affatto un brutto disco e, anzi, risulta godibilissimo in più momenti. Ciò che realmente manca è la presenza di canzoni di spicco che, come in passato, alzino drasticamente la media, riscattando episodi meno felici. La media è piuttosto alta, ma irrimediabilmente piatta.
Con “Houses Of The Holy” i Led Zeppelin depongono temporaneamente in soffitta i dischi di Willie Dixon; il gruppo tenta nuove strade che siano altre rispetto al blues. Un perfetto esempio è la canzone d’apertura del disco, “The Song Remains The Same”, brano estremamente solare ed allegro, in cui Page sfrutta appieno le sonorità “californiane” della chitarra dodici corde. E proprio questo brano sembra testimoniare la nuova direzione del gruppo: canzoni meno immediate e “sporche”, più curate negli arrangiamenti e nelle tessiture armoniche; mini-sinfonie rock in cui è la chitarra di Page a farla sempre di più da padrone. Questa sarà una marca stilistica che troverà il suo apice in “Achilles Last Stand”, uno degli ultimi capolavori dei Led Zeppelin.
Eppure anche in “Houses Of The Holy” l’eclettismo non manca. Si incontra subito una brusca inversione di marcia con “The Rain Song”, secondo brano del disco. La canzone è quanto di più complesso ed articolato il gruppo abbia realizzato fino a questo momento dal punto di vista delle armonie e degli arrangiamenti. “The Rain Song” è un lento struggente in cui la chitarra dalle accordature “alternative” di Page incontra il mellotron (forse un po’ troppo “pesante”) di John Paul Jones, raggiungendo armonie sublimi e toccanti. Decisamente uno dei brani più riusciti dell’album.
La media rimane alta, e così lungo i solchi del disco incontriamo altre canzoni assolutamente godibili come “Over The Hills And Far Away”, con il suo irresistibile riff di chitarra acustica, o come “Dancing Days”, brano decisamente allegro e spensierato in cui l’energia del rock elettrico si sposa con melodie pop, facendo presagire ciò che gruppi come gli Aerosmith avrebbero fatto sentire qualche anno più avanti.
Il secondo lato del disco regala ottimi episodi, alternando momenti di puro divertimento con atmosfere più cupe e rarefatte. Le danze si aprono con l’irresistibile rullata iniziale di “D’yer Mak’er”. Il brano è un autentico divertissement, (già a partire dal titolo, un vero nonsense, se escludiamo le assonanze contenute in esso, come “Did You Make Her”, o “Jamaica”), in cui i Led Zeppelin si confrontano scherzosamente con l’allora inedito ritmo reggae, quasi a testimonianza della sempre vigile attenzione del gruppo per quanto di nuovo si muoveva allora nel panorama musicale. A tanta spensieratezza si affianca la lugubre atmosfera di “No Quarter”. Il tristo piano elettrico di John Paul Jones accompagna la voce effettata di Plant, per poi lanciarsi in un intermezzo quasi jazz, in cui la chitarra di Page alterna suoni puliti ad autentici ululati (facendo il verso a quei “Dogs Of Doom” di cui Plant parla nel testo).
“Houses Of The Holy” è il classico disco di transizione, incastonato tra un illustre passato e un futuro ancora incerto e dai percorsi creativi non ancora ben definiti. Certo è che se i Led Zeppelin intendevano creare qualcosa di nuovo rispetto a se stessi, con questo album sono riusciti pienamente nell’intento. Meno blues e più pop-rock, chitarre più precise e definite, una voce più acuta, a tratti quasi stridula, inediti suoni elettronici. Questa sembra essere la nuova rotta che il “dirigibile” sta per intraprendere. L’innocenza degli inizi è definitivamente perduta; ora è il tempo della maturità, delle riflessioni e delle grandi prove, artistiche e umane, da superare per mantenere in volo questa meravigliosa creatura.