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Anno 1971: la Gran Bretagna è un frenetico laboratorio musicale, forse ancora di più della tanto copiata America; nuove idee, nuovi suoni, e soprattutto una nuova concezione delle possibilità espressive del rock si affacciano sempre meno timidamente dai solchi dei dischi di quegli anni; i Led Zeppelin dal canto loro si apprestano ad affrontare la loro quarta prova su vinile con l’intenzione di dare il massimo.
I precedenti scontri con la stampa inglese li porta alla sistematica decisione di eliminare qualsiasi elemento estraneo alla musica, a partire dalla copertina del disco. Il quarto disco dei Led Zeppelin, con grande riprovazione da parte dell’Atlantic, esce con un’enigmatica (e forse per questo così affascinante) copertina su cui non viene riportato né il nome del gruppo, né il titolo dell’album. Forse inconsapevolmente, forse secondo una precisa strategia mediatica, il risultato è che il disco crea intorno a sé un interesse morboso da parte dei fans, che nel corso degli anni cercheranno di colmare con le interpretazioni più disparate e sofisticate il non detto lasciato dalla band.
Prima di tutto il nome: per comodità il disco viene solitamente denominato “IV”. Ma altri nomi gli sono stati attribuiti: il nome “Four Symbols” deriva dal fatto che all’interno della copertina sono riportati quattro simboli magici, ciascuno corrispondente a un membro del gruppo; “Zo-So”, la denominazione più diffusa tra i fans, deriva dal simbolo legato a Jimmy Page. Silenzi enigmatici, simboli magici, e un gruppo dei cui componenti si sa poco o nulla: l’amore di Robert Plant per la vita casalinga, la passione di John Bonham per le auto sportive e l’interesse di Jimmy Page per le scienze occulte. Tutto qua. Come ricorderà anche Page successivamente, l’intenzione era quella di focalizzare l’attenzione esclusivamente sulla musica, eliminando qualsiasi elemento “mondano”. E con “IV” i Led Zeppelin ci sono riusciti, raggiungendo una di quelle vette artistiche da cui si può solo scendere.
A dire il vero, in “IV” gli ingredienti della ricetta Led Zeppelin ci sono tutti: il blues, il rock and roll, il folk, l’hard rock, il tutto miscelato secondo una irripetibile alchimia.
La responsabilità di dare inizio al quarto capitolo della saga Zeppelin viene affidata a Plant, il cui urlo selvaggio e sensuale apre “Black Dog”. La canzone d’apertura di “IV” è il tipico “hard blues” alla Led Zeppelin su cui il riff memorabile di Jimmy Page poggia sulla batteria “sfasata” di Bonham. Nessuna sorpresa dunque; tira aria di rock pesante. Questa sensazione viene confermata dal secondo brano, “Rock And Roll”. L’intro di batteria, destinata ad entrare nella storia del rock, dà il via ad uno sfrenato rock ‘n’ roll in cui la voce di Plant certamente si avvicina di più alle sguaiate performance di un Little Richard che alle vellutate e sornione melodie di Elvis Presley.
Ma l’atmosfera è destinata a compiere una brusca virata con “The Battle Of Evermore”. In un tripudio di chitarre acustiche, mandolini, dulcimer, Plant duetta con Sandy Denny, cantante dei Fairport Convention, in un brano dal sapore folk medievaleggiante. Un episodio forse poco riuscito, ma sicuramente penalizzato dalla scomoda vicinanza con uno dei più grandi monumenti della storia del rock in assoluto.
Tutte le parole che sono state dette su “Stairway To Heaven” hanno cercato di colmare tutto ciò che questa canzone esprime ma non dice, tutto quello che questo immenso capolavoro trasmette ma che alla fine risulta comunque ineffabile. Il dolce arpeggio iniziale, così semplice eppure così magico, come proveniente dalle più nere e remote foreste dell’anima, ha la capacità di incantare chi lo ascolta per la prima o per la millesima volta. Circondato da flauti silvestri, Plant, tra il cantato e il recitato, svolge un’ermetica filastrocca che parla di misteriose signore, di pifferai incantati, di mutazioni alchemiche. Il gioco continua, anche quando entra prepotentemente la dodici corde di Page (destinata a diventare un autentico oggetto di culto durante i concerti della band) e successivamente la batteria di Bonham;, finalmente si giunge all’ultimo movimento del brano, in cui Page, come disse un critico dell’epoca, “si permette di parlare con Dio”, e Plant, abbandonati i toni madrigalistici, diventa il furioso cerimoniere destinato a celebrare quel sabba orgiastico in cui le chitarre sembrano mille voci supplicanti e la batteria il tuono scagliato da una divinità impietosa.
“Stairway To Heaven” è stata ormai scritta, e tutto ciò che segue è destinato a rimanere all’ombra di questo colosso. Anche il secondo lato del disco, pur presentando episodi eccellenti, non può nemmeno avvicinarsi a ciò che è appena stato. L’altra faccia di “IV” presenta canzoni splendide come “Going To California” delicata ballata in cui Plant racconta di una lontana Terra Promessa. L’anima rock dei Led Zeppelin riprende fiato con brani come “Misty Mountain Hop”, in cui il piano Rhodes di John Paul Jones dirige le danze sfrenate. Il blues si ricopre di un’aura mistica con “When The Levee Breaks, brano di Memphis Minnie risalente al 1928, in cui la batteria di Bonham si gonfia di mille riverberi e l’armonica di Plant sembra echeggiare da lande remote.
La vetta è stata raggiunta. Ora si tratta di scendere lentamente a valle, cercando di non voltarsi mai indietro. È quello che faranno i Led Zeppelin nei dischi successivi. “To Be A Rock And Not to Roll”: questa è la lucida consapevolezza di un gruppo che ha regalato al rock uno dei suoi momenti espressivi più alti, portandosene con sé tutte le conseguenze.