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Nell’estate del 1975 Robert Plant rischia la morte assieme alla moglie in un incidente automobilistico: il cantante è costretto su una sedia a rotelle, e il tour di “Physical Graffiti” viene bruscamente interrotto. Il gruppo è stordito dallo sciagurato imprevisto: addirittura, il pieno recupero dell’ uso delle gambe da parte di Plant sembra essere in questione. I quattro decidono di reagire nell’unico modo per loro possibile: fanno velocemente ritorno in studio per incidere un nuovo album, nonostante abbiano pochissimo materiale su cui lavorare. La fretta lascia gli Zep a corto di idee anche per il titolo dell’album (non è mai stato il loro forte: pensate a “I”, “II”, “III”, “IV”); nel frattempo il leggendario studio grafico Hypgnosis prepara una copertina che vede una famiglia felice attorno ad un piccolo e inquietante obelisco nero, una sorta di parodia di “2001 Odissea nello Spazio”. Page e soci apprezzano e vogliono intitolare il disco “Obelisk”, optando poi per un più generico e misterioso “Presence”.
La tensione e la voglia rabbiosa di non darsi per vinti li porta a fare la voce grossa, componendo alcuni dei brani più hard del loro repertorio; in tutto il disco gli Zeppelin cercano di dimostrare di essere ancora se stessi, ripercorrendo con foga (ma con poca lucidità) le strade che li hanno fatto diventare grandi.
Il brano d’apertura, la lunghissima “Achilles Last Stand” costituisce uno dei grandi “casi” della discografia zeppeliniana: schiere di fans sono pronti a giurare che si tratta di uno dei capolavori assoluti della band, altri ne deplorano le spigolosità percussive e le lungaggini su cui si inerpica. Il brano è concepito come una grande narrazione epica, una specie di “Immigrant Song” all’ennesima potenza: su una ritmica martellante, che ricorda un turbine di cavalieri al galoppo, Page sovraincide un fuoco di fila di chitarre (sua è la definizione di “guitar army”), per poi lanciarsi in uno splendido assolo: peccato che a quel punto la canzone non sia nemmeno a metà, e dopo dieci minuti possa dare la sensazione di rincorrersi un po’ troppo. Priva di slanci epici è invece la seguente “For Your Life”, un unico blocco di granito che esaspera la durezza del suono zeppeliniano e offre altre buone cose di Page, mentre Plant fa ritorno dai viaggi mistici per buttarsi di nuovo nelle storie di ragazzine perverse che lo dannavano nei primi dischi. Lo stesso accade in “Royal Orleans”, dall’andamento funky, dove lo scenario di Bourbon Street è un pretesto per l’ennesimo “prendilo e usalo/ e cerca di farlo durare tutta la notte”. “Nobody’s Fault But Mine” è insieme uno dei brani più interessanti dell’ album e l’esempio più chiaro dei suoi limiti: basato su un blues (rieccolo) di Willie Johnson, vede Page e Plant ripetere all’unisono, chitarra e voce, una frase ipnotica e indolente; la ritmica parte, sembra prendere il largo, poi tutto finisce in un singulto e si torna daccapo, e così per oltre sei minuti; la fretta e la paura di non farcela porta gli Zep a spremere all’ osso ogni riff, ogni più piccola idea. La ricetta comunque funziona molto meno con “Candy Store Rock” e “Hots On For Nowhere”: il primo è un irritante brano rockabilly in cui la voce di Plant è riverberata come quella di Elvis, il secondo raschia il barile, non riuscendo quasi a distinguersi dalle canzoni che lo precedono. Per il finale gli Zep hanno bisogno tornare ancora una volta alla fonte della loro ispirazione, nella speranza di poter rinascere a nuova vita: “Tea for One” è un lento blues in minore, un’amara storia di solitudine che rotola per dieci minuti sulla voce di Plant e sulle corde di Page. Non manca di passione e intensità, ma per farsela piacere sul serio bisogna dimenticare che nel 1970 una band ha inciso un brano chiamato “Since I’ve Been Loving You”.
“Presence” è un po’ come il famoso bicchiere mezzo pieno/vuoto: chi vuole, può vederci l’ennesima dimostrazione di forza degli Zep, che anche nelle difficoltà perpetuano il loro mito di musicisti sovraumani (Plant che urla e tuona nonostante sia su una carrozzina, Page che registra tutte le parti soliste dell’album in un’unica sessione di quindici ore consecutive); i disillusi invece non possono che constatare che i tempi di “Stairway to Heaven” sono passati irrimediabilmente, e si chiedono che fine hanno fatto le sfumature e la fantasia dei primi anni.