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“Ska!”, “O Bella Ciao!”, “Chi non salta Berlusconi è!”, e poi ancora “Ska!”. Non c’è che dire; queste sono i concetti chiave che hanno segnato in maniera inequivocabile la seconda ed ultima giornata dell’”Independent Days 2001″, festival che non ha segnato certo il tutto esaurito, ma che ha dimostrato di avere una propria anima e un proprio carattere. Quest’anno, infatti, a differenza delle edizioni passate, il messaggio politico ed ideologico si è fuso in maniera indistinguibile dall’offerta musicale. A ben guardare la scaletta, ce lo si poteva anche aspettare: tre quarti degli artisti coinvolti in questo festival dichiarano esplicitamente e senza mezzi termini la propria fede politica e il proprio schieramento ideologico, facendone a volte una bandiera da portare orgogliosamente, a volte un facile grimaldello per entrare nelle simpatie di un certo pubblico.
Dispiace davvero doversi dilungare così tanto su argomenti che poco o nulla hanno a che fare con la musica; il fatto è che quest’anno la proposta musicale è stata veramente povera; i gruppi, specialmente all’inizio, si sono susseguiti in un lungo e piatto “streaming” senza lasciare dietro di sé nessuna impressione/espressione di personalità, stile, originalità. Intendiamoci: lo ska, il genere che ha dominato il palco dell’Arena Parco Nord di Bologna, è una musica votata al divertimento e al ballo. Qui non si può parlare di stile o di originalità; qui vince chi è più bravo a macinare “bpm” e a far saltare la gente. E in questo i gruppi che si sono alternati sul palco ci sono riusciti benissimo; dalla Banda Bassotti agli Ska-P, dai Persiana Jones ai Reel Big Fish, tutti hanno regalato ore di ballo sfrenato nella cornice di una fresca e ariosa giornata di fine estate. Ma nonostante la brezza settembrina, gli animi hanno trovato di che riscaldarsi con le parole infuocate degli artisti che hanno pensato bene di associare la spensieratezza del ballo con la protesta sociale e politica, creando a volte una confusa poltiglia dalla consistenza farraginosa ed instabile.
Ce n’era per tutti: Berlusconi, Bush, la Polizia, persino il Papa. Ognuno ha ricevuto il suo sberleffo e le sue ingiurie di fronte ad un pubblico in visibilio, affamato di bocconi di verità, mentre dall’alto dell’Arena campeggiavano attonite le bandiere rosso-sbiadito della Festa dell’Unità.
Dal punto di vista musicale, la seconda giornata dell’Independent Days ci ha regalato una graziosa versione di “Take On Me” degli A-Ha in versione ska, ad opera dei Reel Big Fish e ben due versioni di “Bella Ciao”, per mano della Banda Bassotti e dei Modena City Ramblers; questi ultimi hanno anche presentato alcuni brani tratti dal loro album prossimo all’uscita. Semplici, sinceri, mai eccessivi, sicuramente degni di rispetto.
Certamente chi non ha posto il buon gusto come limite invalicabile, sono stati gli Ska-P. Il gruppo spagnolo ha dato libero sfogo alla propria natura clownesca e farsesca, portando sul palco rappresentazioni e personaggi di dubbio gusto, come quello di un poliziotto in assetto da battaglia che malmena il cantante, o quello travestito da Papa che agita un macro-fallo davanti agli occhi divertiti del pubblico. Belli quei tempi in cui a un De Andrè bastava una rima per muovere e commuovere gli animi…
Per gli amanti del rock, quello vero, puro, l’arrivo dei Muse sul palco ha rappresentato un’autentica boccata d’aria. I tre giovani inglesini del Devonshire hanno regalato un’ora di potenza rock inimmaginabile, pescando dal loro esiguo ma prezioso repertorio. “Citizen Erased”, tratta dall’ultimo album “Origin Of Symmetry”, ha avuto l’onore di rinfrescare l’atmosfera del festival e di restituire dignità ad un genere (ebbene sì, signori, il rock) che ormai pare risultare minoritario. Impeccabile la performance di Bellamy, che, ripercorrendo brani vecchi e nuovi, è passato con disinvoltura dai diversi ruoli di cantante, chitarrista e pianista. Un’autentica speranza per il rock.
Altra sterzata d’umore con l’arrivo degli Africa Unite, portabandiera italiani della musica giamaicana. Il gruppo, a vent’anni dalla morte del “maestro” Bob Marley, attualmente è in giro per l’Italia a riproporre i brani più o meno celebri del padre del reggae, affiancando ad essi anche la loro produzione. Così il pubblico dell’Independent Days ha potuto ascoltare brani immortali come “Jammin’” o “Is This Love” e canzoni della band pinerolese come “Sotto pressione” o “Il partigiano Johnny”.
La sera è ormai scesa in questa giornata di fine estate, e il pubblico è tutto per lui, Manu Chao, da tutti ormai considerato come il menestrello dei rifugiati, il portavoce dei deboli, il poeta delle frontiere. Simbologie e responsabilità che il nostro sembra accettare di buon grado.
Con il suo arrivo, il palco diventa un’esplosione di suoni colori fragranze esotiche che si spandono per l’Arena grazie alle note sfrenate del suo gruppo. Tante canzoni nuove, tratte dal suo ultimo album, “Proxima Estacion Esperanza“, compresa la tanto contestata “Me Gustas Tu” (che dal vivo viene proposta priva di quell’assurda filastrocca, buona solo da farsi cantare sotto l’ombrellone). E così si passa velocemente dalle atmosfere caraibiche al rock and roll di un improbabile “Marijuana Bolgie”, per poi giungere a classici ormai consolidati come “Clandestino”, “Welcome To Tijuana”, “Desaparecido” o “Bongo Bong”, quest’ultima riproposta (basta, per carità, ancora!) in versione ska. Ma l’apoteosi viene raggiunta quando Manu Chao offre una dedica al “maestro della bugia Berlusconi”, lanciandosi poi nell’indiavolato tema composto da Fiorenzo Carpi per l’indimenticabile “Pinocchio” di Comencini.
Il concerto e la serata volgono al termine, ma la voglia di ballare pare non scemare; anche la celebre “King Kong Five” dei Mano Negra passa attraverso il micidiale tritacarne dello ska, portando il pubblico allo stremo delle forze.
Manu Chao chiude questo Independent Days iniziato e concluso all’insegna del divertimento e della protesta sociale, istanze che solitamente cozzano tra di loro, ma che in questo festival pare abbiano trovato una confusa ed approssimativa congiunzione. Dietro a questi sguaiati e maldestri proclami di rivoluzione c’è una reale voglia di cambiamento, e mai come da trent’anni a questa parte questa voglia sembra trovare nella musica il suo naturale canale d’espressione. Forse con meno stile, con meno certezze, ma con altrettanta veemenza.