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Negli uffici romani della BMG, tra le foto giganti di Antonello Venditti e Gigi D’Alessio, incontriamo un tipo che sembra un elfo. Fisico minuto, sguardo spiritato, i capelli e la barba lunga, si infervora parlando di Soundgarden e Led Zeppelin.
Puo dare l’idea di essere qui per sbaglio ma non è così. Moltheni (al secolo Umberto Giardini, marchigiano di nascita ma bolognese d’adozione) è uno dei cantautori rock più genuini emersi nel panorama italiano negli ultimi anni. Grazie all’interessamento del compianto Francesco Virlinzi della Cyclope è arrivato al debut-album nel 1999 con “Natura In Replay”, mettendo subito in luce il suo particolare stile. L’anno successivo è passato per le forche caudine di Sanremo Giovani con “Nutriente”, apparendo in un contesto a lui totalmente estraneo. Dopo un periodo di silenzio torna con il secondo lavoro “Fiducia Nel Nulla Migliore”, prodotto da una firma ecellente (Jefferson Holt, storico primo manager dei REM), un disco sicuramente singolare per la nostra scena musicale. Singolare come lo stesso Moltheni, che ama parlare a ruota libera di tutto ciò che è musica.
Perchè sei arrivato sino in North Carolina per realizzare il nuovo disco?
Inizialmente si pensava di realizzare il disco a Milano. Poi Jefferson Holt ci ha chiesto se volevamo raggiungerlo negli States e io e la mia band siamo partiti, anche perchè cercavamo un approccio sonoro americano e non pop come il primo album. I primi due giorni ci siamo solo ambientati e rilassati, girando per locali. Il produttore artistico Chris Stamey mi ha poi spiegato il suo metodo di lavoro dicendo:”dimenticate i metodi italiani, registreremo tutto in diretta, senza sovraincisioni”. Per fare questo dovevamo essere molto preparati. Ci siamo chiusi in un locale, per una settimana, provando i pezzi anche 30 o 40 volte di seguito e in un mese e mezzo abbiamo realizzato il disco. Holt è venuto come supervisore solo negli ultimi giorni.
Per il tuo nuovo album si è parlato di sonorità vicine al grunge dei primi anni novanta…
Più che grunge parlerei di stoner, un sound grezzo e distorto che si orienta verso l’hard-rock tipo Black Sabbath, creato anni fa da bands geniali come Kyuss e Melvins. Certo, non mi permetterei mai di accostare “Fiducia Nel Nulla Migliore” a un disco del genere ma non nego che i miei riferimenti in questi ultimi anni sono orientati in quella direzione.
Ascoltando ora il disco sei soddisfatto della produzione americana?
Si, anche perchè hanno utilizzato dei metodi che non conoscevo. In studio c’era un vecchio mixer analogico che ha reso le sonorità più calde e potenti al tempo stesso, ha dei bassi molto pompati. Io cercavo qualcosa sullo stile degli Screaming Trees, a tratti tenebroso, a tratti più veloce, sempre molto elettrico, “chitarroso”, se vuoi un po’ “fuori moda”…
I tuoi testi sono sempre molto particolari, a tratti sembrano un po’ pessimisti o sbaglio?
Beh, c’è stata una ricerca tra musica e testi. Sui testi ci ho lavorato un anno. Adesso non vorrei dire una bestemmia ma volevo fare qualcosa che fosse a metà strada tra la poesia di Jeff Buckley e la potenza dei Kyuss. Forse è la prima volta in Italia che un artista fa una cosa del genere. Nel mio piccolo aspiro a realizzare il meglio possibile, senza compromessi
La scomparsa di Francesco Virlinzi ha influenzato in qualche modo l’atmosfera del disco?
Non vorrei apparire poco romantico ma direi assolutamente di no, anche se è stata un perdita gravissima. “Fiducia Nel Nulla Migliore” è comunque un disco adulto e riflessivo, che richiede diversi ascolti per essere apprezzato.
Quanto tempo ci è voluto per comporre i nuovi brani?
Devo dire che almeno quattro canzoni le eseguivo dal vivo già un anno fa. Io non mi creo problemi se incidere o no un pezzo già sentito. Il singolo “Finta Gioia” ricordo di averlo improvvisato durante un bis a Verona davanti a duecento persone. Nei prosssimi concerti ci saranno inoltre due o tre pezzi che inciderò in futuro…
Ho letto in una intervista che ti piacevano molto gli Smiths. Come sei arrivato alle sonorità potenti di oggi?
Li ho scoperti ai tempi di “Hatfull Of Hollow”, quando ero solo un ragazzino. Loro dimostrarono come negli anni ’80 non ci fossero solo personaggi per me ridicoli come Boy George o Adam Ant ma anche cose molto più di classe. Poi un giorno vidi il concerto di un gruppo chiamato Miracle Workers che mi cambiò la vita. Rimasi molto colpito dal loro look (pantaloni di velluto, camicie psichedeliche e capelli lunghissimi) e dalle sonorità acide che producevano. Fu amore a prima vista! Iniziai ad andare ai concerti di band garage-psichedeliche americane come Dream Syndacate e Opal. Ricordo che c’era poi un periodo che consumavo i dischi dei Soundgarden trovando affinità incredibili con i Led Zeppelin. Passavo ore a studiare gli arrangiamenti, le sonorità particolari del chitarrista indiano, i tempi dispari di Matt Cameron, la voce pazzesca di Cornell. Questo mi ha aiutato a far emergere la mia anima più rock…
A parte la tua musica, c’è qualche band giovane in Italia che trovi interesante?
Conosco molto bene i Verdena. A mio avviso il loro ultimo lavoro “Solo un grande sasso” è uno dei migliori dischi rock mai realizzati in Italia, rappresenta quello che la PFM o gli Afterhours hanno fatto negli anni precedenti. Il chitarrista Alberto è un piccolo genio, usa una marea di pedali contemporaneamente e sa sempre quello che fa. Conta che sono solo ventenni. Io ho trentatre anni e penso che smetterò prima dei quaranta, non mi vedo a fare il rocker a quella età, ancora in giro per i palchi. C’è un età per fare delle cose e c’è un periodo per sviluppare altri progetti. Lascerò spazio ai giovani…
(22 ottobre 2001)