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La mitica seconda parte di quel capolavoro che è “Fisherman’s blues” finalmente è tra noi e tra i tanti che hanno aspettato fiduciosi, ben sapendo che le interminabili sessions di quell’album nascondevano gemme purissime.
Mike Scott, la mente della formula Waterboys, a quel tempo era un fiume in piena di creatività. Circondatosi di un gruppo di musicisti fidati ed eccezionalmente abili (Steve Wickham al fiddle ed occasionalmente al mandolino, Anthony Thistlethwaite al sax, Trevor Hutchinson al basso), Mike si trasferisce in Irlanda e per tre anni ininterrotti suona con gli altri nei pubs, per la strada, in studio. Il risultato è un continuo fluire di idee e di temi musicali, sui quali il gruppo si sofferma per un po’, per poi passare entusiasta ad inseguire una melodia ancora più eccitante della precedente. Quando giunge il momento di decidere la scaletta per “Fisherman’s blues”, per Scott è quasi un dramma scegliere fra tutte queste creature magicamente sgorgate dalla sua fantasia. Le undici tracce dell’album saranno comunque splendide, ma già da quell’ottobre 1988 si comincia a vociferare di veri e propri lingotti d’oro rimasti nel caveau. 13 anni dopo, Scott si è intrufolato in quel suo caveau, del quale nel frattempo aveva perso la chiave, ha frugato e rimestato ed infine se ne è uscito con un sacco pieno di dieci pezzi, o meglio, dieci capolavori dimenticati.
Sì, diciamolo finalmente, “Too close to heaven”è un disco da amare alla follia, un disco pieno di musica strepitosa, passionale, una testimonianza perfetta di un’estasi creativa che durò almeno fino a “Room to roam” (1990). Potremmo chiederci perché mai non uscì un album doppio, ma ora l’immenso piacere di centellinare queste note fa apprezzare il tempo passato ad aspettare. Tra le dieci canzoni che ci portano “così vicino al Paradiso”, la metà sono davvero celestiali nella loro bellezza…
“On my way to heaven” è un traditional gospel reinterpretato con sensibilità tipicamente irish: l’impasto di queste due culture impregnate di spiritualità è sensazionale, il pezzo vola altissimo, la batteria di Noel Bridgeman sembra un treno in corsa e Roddy Lorimer fa schizzare dalla sedia durante l’assolo con la sua tromba. “The ladder” risente ancora delle atmosfere di “This is the sea”, in piena tensione tra piano elettrico, fiddle e vocalizzi. Anche “Custer’s blues” nasce durante quelle lontane sessions del 1985, tesa come “The ladder”, ma meno scarna e ricca di un eccezionale lavoro al fuzz mandolin di Steve Wickham. Il blues è il grimaldello che fa scattare gli strumentisti e li lancia in esecuzioni senza respiro, che si abbeverano sempre alla grande sorgente folk irlandese e qualche volta a quella puramente country (“Good man gone”). “Lonesome old wind”, con Jim Keltner alla batteria e John Patitucci al basso, chiude un album dove brilla, stella fra le stelle, la title track, una canzone davvero enorme, emozionante, commovente nei suoi 12 minuti e più, una sorta di “Listen to the lion” degli anni ’80, un omaggio all’arte di Van Morrison che ne eguaglia lo spirito più libero e passionale, una gara all’ultimo respiro tra la voce ispirata di Mike Scott, il sax di Thistlethwaite, il fiddle di Wickham, il basso di Hutchinson e la batteria di Kevin Wilkinson. Come sottolineano le note di copertina, “recorded live at Windmill Lane, Dublin, in the early hours of September 14th 1986”. Per fortuna quelle early hours saranno nostre happy hours, ogni volta che vorremo, d’ora in avanti…