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Ogni album di Laurie Anderson va accolto come una boccata fresca di poesia nell’aria troppe volte stantia del rock/pop contemporaneo. “Life On A String” vede la luce dopo sette anni di quasi totale silenzio; un’attesa sicuramente ben premiata da un’opera che consacra l’artista americana come una delle espressioni più interessanti della musica contemporanea.
Dopo “Moby Dick”, progetto teatrale che ha impegnato la Anderson in questi anni di lontananza dalle scene musicali, ci si aspettava un disco che ne riprendesse le tematiche: così non è stato, o perlomeno solamente in parte. Nel disco trovano posto liriche tenui e soffuse, pronunciate da una poetessa che attraversa con ingenuità e ironia le strade disastrate del mondo; un William Burroughs con la gonnellina di Alice nel Paese delle Meraviglie. E così le canzoni diventano piccoli frammenti di poesia, in cui le parole della Anderson fluttuano su arrangiamenti sospesi nell’aria crepuscolare che domina l’intero lavoro.
Il primo brano, “One White Whale”, chiaramente legato all’opera teatrale precedentemente citata, si svolge in un’atmosfera placida ed eterea, in cui le tastiere ben riescono a ricreare l’ambiente “oceanico” in cui si svolge la piccola/grande vicenda della Balena Bianca. Dalle correnti rarefatte dell’oceano approdiamo all’isola di “The Island Where I Come From”, in cui regnano i ritmi calypso (forse che David Byrne abbia dato lezioni di bongos a Mrs. Anderson?).
Ma i pezzi più intensi devono ancora arrivare. Certamente una delle vette più alte viene toccata con “Slip Away”, delicata testimonianza della morte del padre. Gli archi (che con il violino della Anderson trovano in questo disco ovviamente uno spazio privilegiato) perdono parzialmente drammaticità in episodi come “Dark Angel”. Lo stralunato arrangiamento di Van Dyke Parks conferisce al brano un tono tra il fiabesco e il grottesco, passando da commenti musicali alla “Pierino e il Lupo” ad atmosfere jazz anni ’40. Delizioso.
Ben altra atmosfera si respira con “Statue Of Liberty”, brano di intensità quasi dolorosa. Il simbolo della libertà americana viene salutato con paura e diffidenza dal lento rintoccare di campane a morto e dal violino straziante della Anderson.
Da non sottovalutare anche le importanti collaborazioni che Laurie Anderson ha intrecciato per questo disco, in cui troviamo artisti di tutto rispetto: da Joey Baron (batterista di John Zorn) a Bill Frisell, fino al compagno di vita Lou Reed. Si tratta certamente di un disco impedibile, realizzato da una musicista che ha abbattuto con la propria arte gli sterili confini tra “alta” e “bassa” cultura.