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Nuovo album e nuovo prevedibile successo di vendite per Lenny Kravitz. Ormai mr. Kravitz è frequentatore abituale delle zone alte delle classifiche, e questo non può che farci piacere perchè Lenny è artista vero che sa cantare, scrivere, suonare a differenza di tutti quei bellocci e bellocce che lo affiancano in classifica e che di artistico hanno ben poco (e qui mi fermo altrimenti…).
L’ultima fatica dell’artista newyorkese si intitola semplicemente “Lenny” e mai titolo fu più azzeccato: sì, perchè oltre ad aver prodotto l’album e aver composto e arrangiato tutti i pezzi dell’album, Kravitz ha suonato tutti gli strumenti. Rinchiuso nel suo nuovissimo studio, dove apparecchiature tecnologicamente all’avanguardia convivono con alcuni pezzi che hanno fatto la storia della musica (tra tutti il mixer usato dai Beatles negli studi di Abbey Road), Lenny ha “partorito”, libero da ogni pressione, un album non eccezionale ma buono; un album in cui alterna con gran mestiere brani di puro e aggressivo rock a ballad intense ed emozionanti.
E così si parte sotto il segno delle chitarre elettriche con il rock sfrenato di “Battlefield Of Love”, seguita a ruota da “If I Could Fall In Love”, un brano tirato dove a farla da padrone sono le chitarre acustiche e una serie di effetti che rendono il cantato molto particolare. “Yesterday Is Gone” è una ballad semplice semplice ma affascinante, mentre “Stilness Of Heart” è un’altra ballad un po’ più movimentata caratterizzata da un ritornello che farà la felicità dei fans durante i concerti. “Believe In Me” è un brano poco riuscito: il ritmo campionato è complicato e mal si sposa con l’atmosfera soft creata dalle tastiere, che dal canto loro sono piuttosto piatte, senza dinamica. Il risultato è un brano che si trascina faticosamente per quasi cinque minuti, annoiando l’ascoltatore. Lenny si riprende con la successiva “Pay To Play”, dove ritmiche campionate e effetti di vario genere creano un base perfetta per i riff di chitarra elettrica di chiara matrice hendrixiana. “A Million Miles Away” è un’altra ballad che presenta forti influenze beatlesiane, mentre “God Save Us All” è un pezzo rock piuttosto semplice, caratterizzato da un singolare assolo di chitarra la quale, grazie ad alcuni effetti, suona come un’armonica a bocca. “Dig In” è il classico singolo di lancio per il disco: melodia accattivante e ritornello che ti si stampa nella testa. Più elaborata la successiva “You Were In My Heart” dove, su uno sfondo di tastiere, si stagliano lunghe note di chitarra, il tutto costruito su una base moog che sembra sia stata rubata da qualche brano degli Who (“Baba O’Riley”, “We Won’t Get Fooled Again”). “Bank Robber Man” è un rock tiratissimo con testo autobiografico, mentre la successiva “Let’s Get High”, pur con venature psichedeliche, si rivela un pezzo piuttosto anonimo.
Insomma “Lenny” è un album in tutto e per tutto di Lenny Kravitz; un album ben fatto, carino, che però non aggiunge (e non toglie) niente alla carriera di un artista che ormai ha consolidato il suo successo.