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Su Mick jagger si è detto praticamente tutto e di più: genio eroinomane onnisessuale pervertito angelo sensuale. Si è già detto tutto e troppo, e forse Jagger stesso ha già detto tutto quello che poteva dire come artista. Molto probabilmente questo “Goddess In The Doorway” è nato con anime plurime: da una parte l’intenzione, forse del tutto in buona fede, di Jagger di sciacquarsi l’anima e offrire al proprio pubblico un album fresco e direttamente proveniente dal cuore; dall’altra la meno innocente mossa di discografici e produttori di circondare il mitico cantante dei Rolling Stones, autentico patrimonio dell’umanità, di pop e rock star, cercando di imitare la fortunata strategia adottata qualche tempo fa da illustri colleghi come Santana o Tom Jones.
La formula pare essere non così facilmente riproducibile. Infatti il disco presenta idee piuttosto stantie difficilmente sdoganabili anche da elementi di spicco della scena rock attuale. Primo fra tutti va citato Lenny Kravitz, la cui chitarra, a dire il vero piuttosto fastidiosa, compare in uno dei pezzi più Stones-oriented di tutto l’album, “God Gave Me Everything”, brano che per riff e ritmiche riesce solo a provocare la nostalgia di brani come “Jumpin’ Jack Flash”, di cui sembra essersi impossessato impropriamente dello stampo.
Il rock trova voce anche in altri brani piuttosto fiacchi, come “Lucky Day” o “Joy”, in cui si registra l’illustre presenza di Bono (altra rock star prossima al Viale del Tramonto; forse un segno di solidarietà per un destino comune e molto probabilmente non troppo lontano?); la canzone non è male, ma anche in questo caso dietro si sente un’eco lontana, quella “Street Fighting Man” che ha infiammato generazioni di rockers. Nemmeno valutabile la prova hip hop/reggae di “Hide Away”, in compagnia di Wyclef Jean.
Mr. Jagger si rivela quantomeno sincero nelle canzoni più intimiste e delicate dell’album. In questi brani il nostro riesce a sfruttare al meglio le sue insuperabili capacità espressive. “Visions Of Paradise”, con i suoi soffici fraseggi di pianoforte e il suo ricco arrangiamento d’archi, sembra essere uscita dalla penna del Billy Joel più ispirato. Sicuramente il brano più riuscito dell’album. La stessa strada viene percorsa da “Don’t Call Me Up”, canzone da assaporare in compagnia di una bionda sugli sgabelli di un cocktail bar.
Dato il lauto sostentamento di cui Jagger può ampiamente godere, ci si può legittimamente domandare l’utilità di questo album. Il guaio è che non possiamo nemmeno invocare l’intervento di un Keith Richards a salvare la situazione: separati, fanno più danni, ma sicuramente di entità minore.