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C’è aria di serenità, in questo nuovo album di Natalie Merchant. Non ottimismo, non allegria: semplicemente una fermezza e una pacatezza profonde, meditative, che si accompagnano a malinconie altrettanto profonde; c’è la serenità di guardare le ferite lasciate dalle decisioni irrevocabili, dagli screzi del destino, e il coraggio di dire che si potesse tornare indietro, si rifarebbe tutto da capo. Questa serenità Natalie se l’è guadagnata dopo aver attraversato la sua carriera solista mettendo in scena diversi costumi, diversi aspetti della sua sfaccettata personalità: la popstar dei 10000 Maniacs, l’autrice più raccolta, l’interprete che omaggia i grandi (come nel “Live in Concert”), la donna fatale dell’ambizioso concept-album “Ophelia”. Ora Natalie è quella della foto di copertina: ti guarda dritto negli occhi con un’ombra di sorriso, un modo pacato per dire eccomi qua, io sono qui.
La musica di cui è fatto questo “Motherland” riflette quello sguardo per sincerità e intensità, ma si scompone in una moltitudine di sfumature diverse: la produzione del buon vecchio Jospeh “T-Bone” Burnett aiuta Natalie a dispiegare un ventaglio di suoni meravigliosamente “root”, sia nel senso più tradizionale, con le fisarmoniche e le pedal steel di un country lento e notturno, sia attraverso le contaminazioni “world”; basta ascoltare le tablas del reggae in odore d’Oriente “This House Is On Fire”, o il quasi-tango di “The Worst Thing”. Non mancano brani che ricordano la gradevolezza radiofonica dei migliori 10000 Maniacs (“Tell yourself”, “Not In This Life”), cui fanno da contraltare brani più raccolti, come la title-track e “Henry Darger”.
Al centro dei testi di Natalie c’è sempre il racconto di un mondo femminile nascosto, segreto, che a tratti svela la propria vulnerabilità e assieme la propria forza: “niente bella di giorno, niente femme fatale/ Di’ così a te stessa/ Di’ a te stessa che non c’è niente di peggio del dolore dentro/ e di come ti fa male/ ma di’ a te stessa che non c’è niente di nuovo/ perchè capita anche agli altri” (“Tell Yourself”). C’è del resto meno enfasi del precedente “Ophelia”; “Motherland” è più diretto, a tratti persino duro, tanto che a sigillo finale c’è la laconica, esausta “I’m Not Gonna Beg” (Non ti supplicherò per nessuna cosa/ Non ti supplicherò per il tuo amore).
Natalie è cresciuta molto dai tempi di “In My Tribe”, ha imparato a camminare con le proprie gambe e a dimostrare di cosa è capace. “Motherland” è la bellissima prova di una raggiunta maturità, un album sincero e luminoso che non riesco a togliere dal lettore del PC.