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Dobbiamo ancora ostinarci a chiamarli i “santoni” del grunge? Non c’è proprio niente di meglio? I Pearl Jam meritano di non essere marchiati come un prosciutto che ambisce al raffinato palato di psichedelici commensali. E poi non è possibile contenere dentro i ristretti confini di Seattle il tachicardico cuore musicale degli States. Concediamo almeno al rock’n’roll, illusione ritmica nella civiltà dei rumori, il privilegio di sfuggire alla frustrazione semantica di improvvide codificazioni coniate da critici probabilmente obnubilati dalla polvere del backstage. Non c’è neanche, nei coni d’ombra creati dagli amplificatori sul palco, il fantasma di Kurt Cobain a vegliare sull’idonea applicazione del “grunge” nelle implosioni elettriche dei Pearl Jam. Quel colpo di fucile, che bruciò in un attimo il disagio esistenziale del leader dei Nirvana, ha rappresentato simbolicamente anche la fine di un “movimento”, non soltanto musicale, costruito apposta per saziare i famelici appetiti dello show-business.
Così ora i Pearl Jam possono festeggiare con un disco registrato dal vivo, Live on two legs, la ritrovata identità. Non a caso rinunciano a riproporre un brano come Alive che forse oggi è diventato un fuorviante biglietto da visita. Ma non manca, da veri appassionati del rock, un doveroso tributo al vecchio leone Neil Young con l’unico pezzo non originale dell’album. C’è, ma tutt’altro che insopportabile, il ronzio di Red mosquito assecondato senza propositi omicidi dal nuovo batterista Matt Cameron, ex Soundgarden. Il blues distorto, letto sul vetrino da entomologi che hanno le sembianze del grande Lebowski, consuma in un attimo la batterica propensione alla mutazione e si trasforma nel melanconico andamento melodico di Elderly woman behind the counter in a small town.
La band non eccede, come è suo costume, in funambolismi sonori e il furore creativo viene sempre più temperato col magico espediente dell’essenzialità. Sembra quasi che un misterioso sindacalista delle sette note abbia trovato disciplinati proseliti pronti a coniugare teoria e prassi: non più di 35 assoli nell’arco “lavorativo” di un disco. Poi ci si abbevera a piene mani a Yield, l’ultima incisione realizzata in studio. La tournée che ha originato “Live on two legs” è riuscita a far convivere l’afflato mistico di Given to fly con la razionale rassegnazione di MFC, mentre Do the evolution suggerisce ipnotici compromessi con la propria coscienza. Sul palco Eddie Vedder canta attaccato al microfono con la stessa voglia di perdersi di chi aspetta profetiche rivelazioni. Gli altri Pearl Jam lo seguono come un lungimirante maestro di cerimonie.