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E’ successo che l’esibizione destinata ad essere riversata in questo album live, fosse stata fissata per l’undici settembre del 2001. La serata si è fatta comunque, e anche l’album, che non ha più potuto chiamarsi “On Such A Night” come avrebbe dovuto. E anche se la catastrofe di quel giorno avrà certamente pesato sull’evento (ma non si può sapere con certezza quanto e come), sarebbe estremamente riduttivo e fuorviante considerare l’album soprattutto come ‘quello dell’11 settembre’.
L’operazione che sta alla base di questo live, registrato presso la villa toscana di Sting, ha molti tratti in comune con l’altro suo disco dal vivo degli esordi da solista, “Bring On The Night”: oggi come allora viene assemblato un formidabile quanto assortito assieme di musicisti sopraffini – molti dei quali ovviamente di estrazione jazzistica – che ripropongono alcuni successi sia del Pungiglione che dei Police, riarrangiandoli e in parte stravolgendoli. Mentre in “Bring On” traboccava energia jazzrock e dinamismo, qui dettano legge soprattutto l’elaborazione e la raffinatezza degli arrangiamenti, in sintonia anche con la linea seguita da Sting nel recente album da studio, l’eclettico “Brand New Day”.
Apre le danze con amarezza “Fragile”, toccante, arricchita di suoni e passaggi nuovi. Sono parecchi i brani rielaborati a fondo: “All This Time” diventa una sorta di soul jazzato e molto ritmato, e anche “Brand New Day” tende al bluesaccio, mentre in altri momenti si assaporano il gospel e il jazz classicheggiante o dal sapore latino. I brani più simili alla versione originale (come “Fields of Gold” o “If I Ever Lose My Faith In You”) faticano un po’ a spiccare, anche se non ci sono vere e proprie tracce minori. Desta ammirazione “Dienda”, l’unica song inedita, bel lento jazz malinconico su musica del defunto e compianto Kenny Kirkland; notevole anche il medley smooth di “A Thousand Years” e “Perfect Love.. Gone Wrong”; colpisce poi “Moon Over Bourbon Street”, sempre notturna, con tromba irresistibile e Sting che con voce roca fa persino il verso a Tom Waits (o almeno ci prova…). Eccezionale anche l’epica “Hounds of Winter”.
Vero è che nel complesso l’album non aggiunge gran che di nuovo al già noto universo Stinghiano di rock contaminato, ma l’esibizione catturata è viva, ed il ricco piatto musicale finisce per emanare un gradevole profumo di jazz brillante, eleganza, persino spensieratezza. E poi: il ragazzo canta bene, i musicisti sono trascinanti, ed anche la scaletta dei brani è accattivante e varia. Quindi, un disco di qualità che invoglia ad essere riascoltato.