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Il quarto disco solista da studio di Sting prende luce dopo un periodo piuttosto cupo per l’artista, in cui ha visto la luce l’album “The Soul Cages”, lavoro complesso ed a tratti ossessivo. Con “Ten Summoner’s Tales” Sting ritorna alla grande sfornando un disco d’impatto e molto godibile, caratterizzato da idee forse non nuovissime per l’artista inglese, ma espresse con notevole efficacia e profondità grazie ad un pugno di nuove canzoni di alto livello.
Innanzitutto alla corte di Sting c’è nuovamente un super-gruppo: Vinnie Colaiuta – notissimo drummer dallo stile magistrale e deciso, al tempo in piena esplosione di popolarità; Dominic Miller – chitarrista versatile e raffinato; David Sancious – esplosivo tastierista di colore che, rispetto all’indimenticato Kenny Kirkland, punta meno sul jazz di stampo classicheggiante e più sui groove di sapore funky; Sting al basso, più alcuni ospiti. Questo gruppo si fa sentire divertito, compatto e potentissimo, rivelandosi la migliore band messa assieme da Sting in assoluto (seconda forse solo all’implacabile assieme jazz-rock di “The Dream Of The Blue Turtles” e della seguente testimonianza live “Bring On The Night”). Vengono abbandonate (anche se solo in parte) le tendenze sperimental-jazzistiche inseguite nei lavori precedenti, in favore di uno stile che, se pur variamente contaminato, risulta nel complesso solido ed essenziale, riavvicinando talvolta l’artista inglese alle sonorità degli ultimi Police di “Synchronicity”, o di “Every Little Thing She Does”.
Il risultato è una sequenza di brani di grande fascino, caratterizzati dall’alternarsi di pezzi più ritmati (spiccano “Seven Days”, con Colaiuta impegnato in un tempo dispari che ha fatto scuola, l’armonicamente complessa “Saint Augustine in Hell” con risatina satanica di intermezzo, la fresca “Epilogue”) a pezzi più d’atmosfera (“Shape of My Heart” ed il relativo arpeggio di Miller sono un capolavoro; “Fields of Gold”, semplice e bella; “It’s Probably Me” scritta con Eric Clapton, qui in una versione ‘smooth’ notturna, da brivido, priva della chitarrona del bluesman). I testi, generalmente dal contenuto disimpegnato, sono sempre curati e riusciti quanto gli arrangiamenti, ed il disco scivola liscio all’ascolto, anche grazie ai suoni di una produzione tra le migliori che io abbia personalmente mai sentito – anche su una radiolina scassata questo disco suonerebbe benissimo! – e ad una azzeccata sequenza di brani. Caratteristica peculiare di quest’opera è l’equilibrio tra gli elementi di cui è composta, tale da renderla comunicativa a più livelli: risulta fruibile e leggera, orecchiabile, e nel contempo è sviluppata in profondità sufficientemente da rivelare ad ogni ascolto lati e particolari di sé che in precedenza non si erano percepiti.
In definitiva “Ten Summoner’s Tales” è un ottimo disco, certamente uno dei migliori del famoso Pungiglione. Non è articolato e ricercato quanto altri suoi acclamati album (in particolare “The Dream of the Blue Turtles” e “Nothing Like the Sun”), ma risulta comunque essere un grande disco di grande pop, divertente e profondo. Un picco positivo nella produzione di Sting. Da avere.