Share This Article
Diventati, loro malgrado, simboli del dark, i Cure continuano la loro ascesa al successo. Nel 1981 esce “Faith”, il loro quarto LP. Nel frattempo il gruppo è tornato ad essere un terzetto, dopo l’allontanamento del nuovo tastierista Matthieu Hartley, causa gravi incomprensioni con Smith. Il cantante, con questa decisione dimostra quindi di voler tenere bene in saldo le redini del gruppo, senza accettare compromessi con chicchessia. Non volendo abbandonare la nuova sonorità appena raggiunta si mette lui stesso alle tastiere, oltre a dare il suo apporto con la chitarra e la voce.
Fin dal primo brano, “The Holy Hour”, si nota come i germi lanciati da “Seventeen Seconds” siano ormai consolidati nel DNA del gruppo. Il chorus sul basso di Gallup è già diventato ormai un segno distintivo, così come il delay sulla chitarra di Smith e i testi, che continuano ad essere modellati su un senso di angoscia, quello di un uomo (ragazzo) fragile alle prese con un successo forse troppo improvviso. Si mormora fin troppo spesso nell’ambiente che il cantante sia prossimo a seguire le orme autodistruttive di Ian Curtis dei Joy Division, morto suicida. Tutto il gruppo risente dell’atmosfera di pesante decadenza e il suono prodotto ne è l’inevitabile conseguenza.
“Primary”, uno dei brani migliori dell’album, propone una cadenza debitrice sia di “A Forest” sia di “Jumping Someone Else’s Train”. “Other Voices” e “All Cats Are Grey” (citazione shakesperiana) mantengono alta l’attenzione dello spettatore, lente e malinconiche suite dove Smith elabora la sua teoria della sconfitta e della perdita (“I never thought that I would find myself in bed amongst the stone”) e celebra l’elegia della morte. Non è un caso se a seguire arriva la seconda canzone portante dell’album, “The Funeral Party”: l’emozionante attacco della batteria e delle tastiere immerge da subito l’ascoltatore in un atmosfera surreale, pallida, eterea (“Two pale figures ache in silence, timeless, in the quiet ground side by side in age and sadness”), esponendolo ai rischi di una danza macabra, ipnotica e dolorosamente affascinante. Una maggiore asprezza traspare da “Doubt”, con le tastiere in secondo piano – il brano sembra quasi una ripresa di “So What” – mentre l’attacco di batteria di “The Drowning Man” ricorda il David Bowie di Ziggy Stardust.
A chiudere l’album la lunga “Faith”, che mette degnamente la parola fine su un lavoro aspro, duro, difficile, succube forse dello stato emotivo del suo compositore, ma forse proprio per questo ancora più affascinante e delicato. Uno di quegli album che gli amanti dei Cure adorano e che altri considerano eccessivamente patetici e senza speranza.