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Usciti indenni, in fin dei conti, dalla crisi depressiva seguita alla pubblicazione di “Faith”, i Cure si ripresentano ai ranghi di partenza decisi a dimostrare la loro maturità compositiva ed espressiva.
L’attacco di “One Hundred Years”, con la batteria e la chitarra distorta in primo piano è emozionante, a dimostrazione che il momento magico del gruppo continua, il testo dimostra come la vena espressiva di Smith sia sempre la stessa (“It doesn’t matter if we all die”), anche se qui condita da una maggiore carica, da un’irruenza combattiva. Alla desolazione languida e all’accettazione della sconfitta eterna di “Faith” segue una rabbia incontrollata, un’esplosione musicale. Forza che traspare anche nella seguente “A short term effect”, con ancora le chitarre e la batteria in bella evidenza.
Creature si baciano sotto la pioggia in “The Hanging Garden”, secondo la miglior tradizione dark: Smith non si smentisce, sussurra le sue descrizione d’amore, vita e morte con un ineguagliabile (ed ineguagliato) gusto da romantico decadente (“Fall out of the sky, cover my face as the animals cry”) e le rende elegie musicali. Subito dopo arriva il primo capolavoro dell’album, “Siamese twins”, ipnotica, quasi epica nella sua melodia quasi solo suggerita, ritmata dalla batteria con incredibile pathos. “I chose an eternity of this like falling angels” recitano le prime battute, contornate dal basso che regolare aggira le parole e riempie i vuoti. Scarno, duro, freddo, un universo in cui a volte è preferibile cadere e non rialzarsi, desiderare il sogno, sfuggire, lasciarsi morire e non opporre resistenza. Una maggiore energia la sprigiona “The Figurehead”, che nulla aggiunge allo stile dell’album, impresa che riesce invece perfettamente al secondo capolavoro presente. “A Strange Day” presenta un intro lungo, calmo, prima di approdare alla solita batteria, con la distorsione che si aggira intorno. Perfetto brano dark, paradigma di ciò che i Cure vogliono dire, dei teoremi che si sono promessi di esporre. Un mondo strano, figlio di suggestioni oniriche e di ombre notturne, che si allungano e mostrano l’oscuro ad occhi dolci e spauriti.
“The cold” e “Pornography” chiudono perfettamente un album compatto, deciso, senza compromessi, freddo e al contempo emozionante, profondo ed angosciante. Un terreno su cui i Cure hanno dimostrato di sapersi muovere con fin troppa perizia.
(Raffaele Meale)