Share This Article
Raramente il progetto musicale di un gruppo è stato così saldamente in pugno ad una sola persona. Col passare del tempo diventa chiaro a tutti come i Cure siano una creatura ad immagine e somiglianza di Robert Smith, che gestisce il resto della band come un’azienda, con licenziamenti e promozioni. Così, dopo la realizzazione di “The Top”, la line-up del gruppo cambia ulteriormente: Andy Anderson abbandona il gruppo il 13 Ottobre del 1984, sostituito provvisoriamente da Vince Ely dei Psychedelik fur e definitivamente da Boris Williams. Anche Phil Tornalley lascia i Cure per tornare al suo lavoro di produttore e Smith richiama al suo capezzale Simon Gallup, aggiungendo anche un’altra chitarra, quella di Porl Thompson – già attivo nelle date live -.
Dopo la delusione di “The Top” c’è grande attesa per il nuovo lavoro, e queste attese sono destinate a non rimanere deluse. Finalmente con “The Head on the Door” i Cure raggiungono quell’alchimia tra pop e dark vanamente inseguita negli ultimi album. L’attacco con la trascinante “Inbetween Days” è eccezionale, con la chitarra ritmica e la batteria che preparano una base ritmica emozionante su cui ben si poggiano le tastiere e il basso. Puro brano pop, comunque: ma che non ci si trovi davanti ad un nuovo “The Top” è evidente già dal pezzo successivo. “Kyoto Song” è un brano intenso, malinconico, che ricorda da vicino l’incedere umorale di “Seventeen Seconds” e “Faith”, con un testo all’altezza della situazione (“The trembilng hands of the trembling man hold my mouth to hold in a scream”). Sorprendente “The Blood” dall’incedere spagnoleggiante, con una chitarra ritmica e percussioni varie. Segnale inequivocabile che Smith sia di nuovo a cerca di sperimentazioni. Molto più vicina al tipico stile Cure è “Six Different Ways”, forse il brano in cui meglio convergono le due esigenze stilistiche del gruppo. “Push”, uno dei momenti migliori dell’album, mescola alla perfezione gli strumenti, dando ancora molta importanza alle chitarre. Intrigante e affascinante il giro di bassa che accompagna ossessivamente “The Baby Screams”, che anticipa i due capolavori dell’album. “Close to me”, dall’indimenticabile attacco, è una sorta di filastrocca maligna e pessimista. Il tappeto sonoro prodotto dalle tastiere è eccezionale, così come perfetta la voce di Smith che si insinua dolente fra la rete di note (“If only I was sure that my head on the door was a dream”), e così com’è perfetto il tempo scandito da batteria e basso. Le chitarre la fanno invece da padrone nella seguente “A Night Like This”: brano dark della specie più perfetta, ipnotica, energica e al tempo stesso fragile, con un finale in crescendo appoggiato sulle chitarre in cui Smith lancia la sua verità più sconsolante (“I want to change it all”). Bellissimo il basso iniziale di “Screw”, che poi si trasforma in un brano di – se così si può chiamare – hard/pop. E splendido il lento incedere finale di “Sinking”, figlia legittima di “Play for Today” e dimostrazione ineccepibile che i Cure non dimenticano il loro passato né lo rinnegano, vogliono solo miscelarlo, adattarlo.
Ci sono voluti due album per raggiungere il risultato, ma ora che è stato raggiunto, chi può metterci bocca? I Cure sono tornati. Definitivamente.