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Dietro la sigla Real Tuesday Weld si nasconde una persona sola, Stephen Coates da Clerkenwell, London. “When cupid meets psyche” è il debutto dell’artista inglese, preceduto da sempre più interessanti singoli ed EP. Stephen si occupa di tutto, dalla composizione all’arrangiamento ed all’esecuzione dei brani, facendosi occasionalmente aiutare da una cinquina di collaboratori. Le due principali fonti d’ispirazione sono il crooner britannico anni ’30 Al Bowlly e l’attrice americana Tuesday Weld, più una serie di influenze che possiamo riassumere in alcune celebrità delle arti, da Morricone a Bukowski, da Laurel & Hardy a Gainsbourg, da Gershwin a Satie, da Dante a Syd Barrett. Supportato da questo background culturale, Coates ci regala un album di estremo fascino, pieno di grandi idee musicali e di testi semplici ed anti retorici sull’impegnativo tema di fondo, l’Amore e la Morte.
Il sound creato dal Clerkenwell Kid sembra provenire da un vecchio grammofono, sottolineando in questo modo la devozione per il periodo ante Seconda Guerra Mondiale. Il fruscio di fondo è creato ad arte, e quello delle spazzole sul rullo si espande volutamente oltre misura, sovrastando spesso le trame melodiche. L’atmosfera retrò aumenta nel momento dell’entrata della voce di Stephen, sussurrata, confidenziale, che ci porta istantaneamente in un mondo fatto di Night Clubs, piccole balere, fumo di Gauloises e Gitanes, donnine compiacenti. “When cupid meets psyche” non è comunque un’opera nostalgica: la tecnologia contemporanea è presente discretamente in alcuni samplers e drum machines. Un esempio mirabile di questo connubio tra computer e Big Band Sound lo troviamo nella splendida “I love the rain” (che è anche il nuovo singolo), dove il vaudeville ed il charleston sono quasi scalciati da una ritmica hip hop. Piuttosto simile come concezione anche la riuscita “L’amour et la mort”, dove si sente la lezione lounge/easy listening di quel drago di Dimitri From Paris. Idilliaci certi momenti strumentali (“Close your eyes when you read this”), mentre “Asteroids” è una mirabile opening track, una gentle ballad dal seme fanciullesco che ricorda naiveté alla Kevin Ayers. “At the house of the Clerkenwell Kid” è una colonna sonora ad honorem per una spy story, mentre “Epitaph for a dead uncle” è una marcetta fenomenale di impronta jazz manouche. Poi si arriva all’emozione breve e fortissima di “Bruises”, seguita dalla leggera malinconia finale di “Goodbye Stephen”.
Un pensiero sale automatico mentre il dito preme per l’ennesima il tasto play: è nata una stella?