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Praticamente a 35 anni di distanza dal memorabile debut album (“The piper at the gates of dawn”), uno dei gruppi più famosi e celebrati della storia del rock prova a raggruppare un’intera carriera dentro due cd, cercando magari di imitare il successo planetario di “One” dei Beatles. In effetti, nella storia dei Floyd questo è il primo serio tentativo di riepilogare un percorso artistico assolutamente variegato e pieno di sfaccettature. Naturalmente, l’esule volontario Waters non deve avere avuto gran voce in capitolo, vista l’invadente presenza nella track list di scadenti episodi post autolicenziamento. Da molto tempo la gloriosa sigla è un mero esercizio commerciale, e le rare volte che i reduci Gilmour, Wright e Mason si sono rifatti vivi lo hanno fatto con “prodotti”, tra l’altro pure scadenti, o meglio, scaduti. Eh già, la data di scadenza della scatoletta Pink Floyd segna 1979, l’anno di “The Wall”, l’ultima zampata di classe di un ensemble innovatore e commerciale al contempo.
Come tutte (o quasi) le antologie, anche “Echoes” soffre di omissioni dolorosissime. Capolavori assoluti come il citato primo ellepì, o lo straconosciuto “Dark side of the moon”, dovrebbero essere salvaguardati nella loro interezza ed integrità artistica. La successione dei brani, specialmente in “Dark side…”, è sacra, è una costruzione perfetta che ha fondamenta nel cuore e nel cervello di ogni fan o appassionato di grande musica. Avendo voluto fare di “Echoes” una sorta di “antologia concept”, ogni traccia è mixata alla successiva: è così che ci si trova dentro l’incubo di ascoltare la dissolvenza di gemme come “Money” o “Us and them” sfociare in quei terribili pezzi bolsi e loffi degli ultimi Floyd, degni figli della pancia gonfia di Gilmour.
Ci si può sempre comunque consolare risentendo alcune tra le meraviglie create da Waters e compagni, e soprattutto sperare che, grazie alle vendite elevatissime ottenute, l’album raggiunga qualche ignaro, ignaro soprattutto delle delizie della prima ora, quando un certo Syd Barrett seminava dissennatamente il suo genio e la sua follia in inarrivabili psycho-pop pastiches come “See Emily play” e “Arnold Layne”. Prima di sciogliersi nell’acido, il Diamante Pazzo ha fatto in tempo a dare una direzione importante ad una larga parte della musica inglese di fine anni ’60 e di motivare il claustrofobico compagno Waters a rincorrerne le gesta, liberando i propri demoni nella seminale “Set the controls for the heart of the sun”. Da segnalare infine il solito inedito trappola, “When the tigers broke free”, tratta dalle sessions di “The Wall” e giustamente mai inserita nella final list, vista la sua mediocrità.