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I Cure entrano nel loro ventitreesimo anno di vita, Robert Smith supera la soglia dei quarant’anni: a rigore cronologico si deve parlare di una band matura. Ma il risultato di “Wild Mood Swings”, oltre a lanciare nuovi allarmi di crisi interne alla band – come al solito, ormai è abitudine -, ha lasciato interdetti e preoccupati un po’ tutti. Il quesito che il nuovo lavoro dovrà cercare di risolvere è: “Wild Mood Swings” rappresenta solo una provvisoria empasse creativa o l’inizio di una parabola discendente? La formazione è la stessa dell’album precedente, dei membri storici rimangono solo Robert Smith e Simon Gallup (Laurence Tholurst ha abbandonato dopo “Disintegration”, Boris Williams e Porl Thompson dopo “Wish”).
Se l’attacco di “Out of This World” appare promettente, presentando una ballata lenta e malinconica adagiata sulla chitarra acustica, le tastiere e la voce in gran forma di Smith, la seguente “Watching Me Fall”, sembra fugare ogni dubbio. L’energia sprigionata dal brano è di quelle memorabili, i riffs di chitarra e il ritmo della batteria sono ustionanti, trascinanti, seducenti, Robert Smith canta con una cattiveria e una durezza mostrate poche volte. Con un’inarrestabile furia dolce il brano si dipana lungo più di undici minuti: il leader dimostra di aver raggiunto una maturità compositiva invidiabile, tornando a puntare l’accento sulla componente imprescindibile dei Cure, l’intelaiatura musicale. Che mai come in “Bloodflowers” è intricata, sottile, fitta. Di tutti i brani solo la splendida “There is no If…” (ballata tra le più classiche, di una dolcezza infinita) si ferma sotto la soglia dei cinque minuti di durata, tutte le altre canzoni volano lontano con una levità rilassante. Dalle lunghe ballate che compongono l’album viene escluso ogni riferimento cupo, quasi come se Smith intendesse ribadire il raggiungimento di un equilibrio mentale che ha almeno in parte ricacciato in profondità le distorsioni dark, proprie di un animo inquieto. Ricacciate in profondità ma sempre pronte a riemergere, come in “39” e nella bellissima, conclusiva “Bloodflowers”.
Termina l’album e Smith decreta la morte dei Cure, una morte impossibile. Perché i Cure non sono stati altro che lo specchio dell’anima e della mente di Smith, che si è avvalso di molti collaboratori, alcuni più fedeli (l’inossidabile Gallup), altri solo occasionali. Rimane davanti agli occhi un’opera grandiosa, che ci immette di schianto nel nuovo millennio musicale, che come al solito si divide fra le novità (l’elettronica così come nel ’90 era il grunge) e il vecchio, inossidabile suono dei Cure. Rimane davanti agli occhi “Bloodflowers”, grandioso e immeritatamente sottovalutato.