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Colin MacIntyre nasce e cresce a Mull, la più importante isola del meraviglioso arcipelago delle Ebridi, situato a nord-ovest della Scozia, in pieno Oceano Atlantico. Colin sviluppa molto precocemente un grande amore per la musica, affascinato da estemporanee esibizioni di orchestrine locali in riva al mare, piccoli inni alla gioia per una giornata di sole. Trasferitosi a Glasgow, egli si dedica a fare e disfare una mezza dozzina di gruppi, indeciso sulla strada da prendere e parecchio perplesso sulle proprie qualità e su come renderle pubbliche. Fatto sta che come il più famoso Ed Harcourt, anche MacIntyre si arrabatta tra un lavoro e l’altro ed intanto accumula un numero impressionante di canzoni, circa trecento. A tirarlo fuori da questo oblio è probabilmente decisivo l’arrivo a Glasgow dell’amico isolano Alan Malloy, il quale oltre a portare il proprio contributo di bassista aiuta Colin a definire il sound.
“Barcode bypass” è la prima canzone ad essere pubblicata, una ballata sfuggente con un bel ritornello in pericoloso falsetto: il successo è immediato ed il pezzo diventa “single of the year” per la rivista NME. Esaltato da un simile riscontro di critica, lo scozzese si rinchiude per tre mesi nei Gravity Studios di Glasgow e comincia a sviluppare in modo serio e continuo alcune di quelle tante idee tenute nel cassetto. Dotato di personalità spiccata, MacIntyre si accolla ogni responsabilità, dalla composizione all’arrangiamento, dal suonare ogni strumento fino alla produzione artistica.
“Loss” nasce da questi giorni febbrili, da questa voglia di comunicare, finalmente. Infatti è un album pieno di idee, forse perfino un po’ troppe o a volte espresse con troppa foga e ridondanza. Pare che l’autore voglia riempire ogni spazio vuoto, quando invece in certi casi una piccola pausa gioverebbe al climax del singolo pezzo. Tracce come “Watching Xanadu”, “Instead” e “I tried” sono indubbiamente interessanti ed originali, ma l’iperproduzione ed il sovraccarico di arrangiamenti le appesantisce un po’ troppo. A livello artistico, Colin è un piccolo Bignami musicale, raccogliendo influenze che vanno da Babybird alla ELO, dai Supertramp agli Aztec Camera, da Nik Kershaw ai La’s, mentre la voce sembra un frullato tra Roddy Frame (Aztec), lo stesso Kershaw e Lee Mavers (La’s), insomma un frullato non proprio vitaminico.
I momenti migliori di questo gradevole debutto stanno nella grintosa “I tried” (molto Travis prima maniera), nella sezione fiati portentosa del scintillante pop “Only I” e soprattutto nelle due tracce finali, la progressiva, cinematica e vagamente sudamericana “Mull Historical Society” e l’eccezionale ballata “Paper houses”, magnifica evocazione di due grandi outsiders del pop inglese, Paul Roland e Robyn Hitchcock. Qui ogni nota è al posto giusto ed ogni pausa ha il suo spazio…Se Colin MacIntyre ricomincerà da qui potrebbero aprirsi iscrizioni in massa alla sua Society.