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Non c’è che dire: un album eccellente, pieno di grande musica e di parole dure, sferzanti, politicamente scorrette, capace di contenere almeno quattro capolavori ed una traccia finale epocale nella sua lunghezza, quasi 24 minuti di pura tensione emotiva, un coraggioso ritorno alla canzone fluviale e free form, quarto lato di un quadrato psichedelico composto dalle atmosfere maudit marca Doors, da quelle metropolitane Velvet Underground e dai geniali pastiches psychoworld dei dimenticati Kaleidoscope di David Lindley.
Oltre a ciò, è necessario sottolineare due coincidenze parecchio singolari e, nel loro piccolo, sconvolgenti. La prima riguarda la data di uscita nei negozi transalpini di “Des visages des figures”: 11 settembre 2001, una data che sapranno a memoria i nipoti dei nostri nipoti. La seconda particolarità è legata a doppio filo con la precedente, appartiene al discutibile campo della preveggenza e prende corpo nel testo davvero impressionante de “Le grand incendie”: “…c’è fuoco dappertutto, emergenza, Babylone, Parigi crolla, a New York cadono ruzzolando ora (…) London, Delhi, Dallas nello show, omaggio all’arte dei pompieri…”. Certamente Bertrand Cantat non è un novello Nostradamus, ma qui si deve essere spaventato di sé stesso.
Se “Le grand incendie” diviene il racconto in diretta di un’apocalisse e, più in generale, del disfacimento della civiltà occidentale, anche il resto delle canzoni presenti nel disco non sono da meno nel fotografare una società malata di competizione, di economia selvaggia, di gente che ti cammina sui piedi. Testi importanti, per niente demagogici, precisi e perfino ridondanti nel fotografare il nostro mondo. Le sonorità sono spesso cupe e scarne, a volte dissonanti e dissolventi come nello splendido arrangiamento d’archi della title track.
I cinque anni passati dal precedente album hanno provocato una rivoluzione nello stile della band: un esempio concreto di tale cambiamento lo si può ascoltare proprio in “Son style 1” e “Son style 2”, legata ad un punk rock veloce e scontato la prima, eterea e malferma la seconda, un incrocio tra Jeff Buckley e Thom Yorke, con l’affermazione assolutamente visionaria “lupanar à Sisyphe” a chiudere il pezzo. Riuscitissimo e commovente anche l’omaggio a Léo Ferré (“Des armes”), il cui testo esistenzialista ed anarcoide è stato musicato con reverenza dai Noir Désir, mentre “Le vent nous portera” è l’unico episodio di “ottimismo della ragione” dell’opera, con Manu Chao alla chitarra a fornire profondità e ritmo ad una melodia indimenticabile. Tutto questo denso, scomodo ed emotivo materiale socio-politico viene sublimato nell’eccezionale “L’Europe”, un vero e proprio pamphlet scritto assieme alla musa Brigitte Fontaine e al polistrumentista ungherese Akosh Szelevényi, un fiume in piena carico di visioni, di realtà e surreale che ci fa alzare dalla sedia per l’eccitazione, un’opera d’arte coraggiosa ed immaginifica, un urlo ed un reclamo di esistenza e libertà in un mare di burocratico ed indifferente nulla.