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Con “More”, nell’ormai lontano 1969, i Pink Floyd si dedicano alla composizione di una colonna sonora destinata all’omonimo film di Barbet Schroeder. Si tratta del terzo album pubblicato dal gruppo, allora ancora nel pieno del turbine psichedelico degli esordi; lo stesso anno infatti sarebbe uscito anche lo stupefacente “Ummagumma”.
Così come “Obscured By Clouds” – altra colonna sonora pubblicata pochi anni dopo – “More” è stato composto e registrato piuttosto velocemente. Di conseguenza l’album è da un lato caratterizzato da una certa approssimazione (soprattutto dal punto di vista della cura dei suoni, se confrontato con gli altri album incisi dal gruppo nello stesso periodo), ma allo stesso tempo suona ‘fresco’ ed offre parecchi spunti di sicuro interesse. Si tratta essenzialmente di una chicca per intenditori, un episodio forse ‘minore’ da alcuni punti di vista, ma comunque importante, e per i fans più viscerali del primo periodo Floydiano direi fondamentale.
Alternate a brani strumentali e molto sperimentali si trovano alcune ‘canzoni’ più tradizionali; alcune di queste (come la sepolcrale e splendida “Cyrrus Minor”, “Green Is The Colour”, “Cymbaline”, o la minimale “Crying song”) sfoggiano anche una maggiore maturità compositiva – soprattutto di Waters – rispetto a quanto mostrato nel precedente “A Sacerful Of Secrets”. Inoltre l’apporto di Gilmour, da poco entrato a far parte del gruppo, comincia a farsi molto consistente, come ad esempio nella vigorosa e chitarrosa “The Nile Song”. Il tono medio del disco è fortemente eclettico e psichedelico, ma di una psichedelia rurale, più semplice rispetto agli altri lavori del periodo, spesso solo accennata, e talvolta anche impreziosita da suoni etnici che contribuiscono a creare un’ambientazione molto avvolgente.
Pur soffrendo di una scarsa cura dei dettagli, quindi, “More” rappresenta comunque un episodio di grande fascino nel panorama Floydiano.