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“Cosa mai è successo al mio rock and roll?” Così si interrogano i Black Rebel Motorcycle Club in “Punk Song”. A dire il vero ce lo chiediamo anche noi. Ascoltando il disco d’esordio di questo gruppo di San Francisco, pare che il rock abbia subito una serie di lavaggi in lavatrice a temperature tali da far impallidire anche la nonnetta della candeggina. Alcune buone idee ci sono; manca forse la sincerità (qualità del tutto opinabile nel mondo del rock; ai musicisti il compito di darla ad intendere).
Nonostante il nome “trasgressivo” scelto (tratto dal film con Marlon Brando “Il Selvaggio”), di ribelle i BRMC hanno decisamente poco. Si avverte come più urgente la necessità di incanalarsi in un “mainstream” già riconosciuto e facilmente riconoscibile: un indie rock con tappeti di chitarre psichedeliche e voci un po’ indolenti, da rockstar annoiata. Forse i modelli plausibilmente più accostabili sono i Jesus And Mary Chain dei fratelli Reid (con le dovute distanze, si intende!)
L’album inizia con il pezzo forte, “Love Burns”, primo singolo tratto dal disco. Il brano ci dice già molto sul resto delle canzoni: una corda di chitarra acustica suonata a vuoto costituisce l’ossatura armonica della strofa, che sfocia poi in un refrain carino ma decisamente fiacco. Un po’ poco per diventare un oggetto di culto. L’atmosfera monocorde prosegue con “Red Eyes And Tears”, in cui riff di chitarra si intrecciano alla cupa voce di Peter Hayes. I bpm si alzano con “Whatever Happened To My Rock And Roll (Punk Song)”, decisamente più vivace ma priva del nerbo necessario per poter parlare davvero di “rock and roll”.
I brani scorrono sullo stesso filone “natostanco”. Il sospetto è che a penalizzare il tutto sia una produzione un po’ troppo votata alla ricerca di atmosfere “garage”, con l’unico risultato di aver ottenuto suoni provenienti da una cantina mal insonorizzata. Anche quando il furore rock sembra riacquistare dignità con brani come “As Sure As The Sun”, lunga cavalcata psichedelica, torniamo a ritmi drasticamente più piatti con pezzi poco incisivi come “White Palms” o “Spread Your Love”.
I tre sembrano cavarsela un po’ meglio con le ballad: “Head Up High” si adatta perfettamente allo spirito post-suicidio dell’intero disco, sfoderando progressioni armoniche accattivanti. “Salvation” non ha la medesima fortuna; il brano è una lunga ballata giocata su due accordi ai limiti dell’autoindulgenza.
L’esordio non è dei più esplosivi. Incuriosisce l’idea di vedere questo gruppo sul palco; forse che la situazione live permetta alle buone idee nascoste in questo disco di emergere? È lecito dubitarne. Sta di fatto che Noel Gallagher li ha già assunti come gruppo-feticcio da portarsi in giro in tournee. La storia ci dirà chi ha visto più lontano.