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La musica indipendente americana degli ultimi dieci anni è piena di artisti che creano gruppi che non esistono e che in realtà sono soltanto nomi dietro cui nascondersi. Si inizia dagli Smog di Bill Callahan e dai Palace di Will Oldham e si prosegue incontrando via via Jason Molina e i Songs: Ohia o gli Sparklehorse di Mark Linkous o ancora Pedro the Lion di David Bazan. Uomini che si nascondono dietro una sigla e incidono i dischi più sconsolati, più profondi e sentiti della musica dei nostri giorni. Canzoni in cui affrontano a viso aperto i propri demoni e mettono a nudo le proprie paure.
Papa M è giusto un altro di questi nomi, quello dietro cui si cela David Pajo. Uno che ha una bella storia alle spalle, avendo fatto parte di due tra i gruppi più influenti degli ultimi tempi. Prima gli Slint del seminale “Spiderland”, poi i Tortoise da cui è uscito dopo aver suonato il loro capolavoro “Millions now livng will never die”. Ora ci sono i Papa M e la musica è diversa. “Whatever, Mortal” è un altro di quei dischi di cui si diceva prima, incisi con pochi mezzi e pochi strumenti eppure ricchi di passione e sofferenza. Non a caso il compagno di strada di Pajo è questa volta Will Oldham.
La vena poetica è la stessa, country scheletrico e spogliato di qualsiasi orpello. Restano solo qualche accenno di dolcezza, la splendida “Rose in the snow” e la tenera “Many Splendored Thing” o ancora la scarna “Purple Eyelid”, dove le chitarre acustiche si intrecciano lievi accompagnate da qualche nota di piano. E restano un bel mucchio di storie da raccontare, di amori finiti male, di rimpianti da affrontare, di ritorni a casa. Cantilene da accompagnare con pochi strumenti e senza alcuna enfasi, melodie minime eppure intense, appena accennate, a cui affidare i propri sentimenti. Portano il titolo di “Over Jordan” o “Glad You’re Here With Me” o di “Sorrow Reigns”. Con una piccola intromissione delle chitarre elettriche che saturano l’aria in “Beloved Woman” e alcune sottili schegge strumentali aspre ed essenziali chiamate “Krusty” e “Tamu”. Piccole deviazioni di forma più che di sostanza.
Perché il cuore del disco resta quello, ancorato a un piano desolato che accompagna l’addio di “The Lass of Roch Royal” o ai tetri ricordi di una compagna scomparsa di “The Unquiet Grave”.