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L’ultimo disco prima dell’esplosione decisiva dei dissidi interni ai Pink Floyd esce come seguito di “The Wall”, album nel quale tutto il gruppo – chi più chi meno – aveva dato un apporto senza il quale il risultato probabilmente non sarebbe stato altrettanto grandioso.
Invece in “The Final Cut” a pesare è rimasto solo Roger Waters. I pezzi sono tutti farina del suo sacco, e se li canta tutti lui tranne uno, il rockettone-singolone “Not Now John”, che con Gilmour alla voce tenta di rifarsi musicalmente a pezzi ben più lodevoli come “Time” o “Young Lust”. Manca all’appello Rick Wright (già con “The Wall” la sua posizione era divenuta satellitare), mentre Gilmour e Mason non sono che due dei vari session men che fanno da spalla a Waters. Certo, l’apporto di questi ultimi due membri del gruppo – soprattutto quello di Gilmour – si fa sentire, riuscendo ancora a caratterizzare il sound e renderlo riconoscibile come Floydiano, ma il loro contributo attivo alla ideazione del progetto è evidentemente nullo.
Eppure “The Final Cut” è un buon disco. Il primo e probabilmente il migliore disco solista di Roger Waters. Le sue capacità come autore di canzoni sono ancora notevoli, e lo portano a concepire un piccolo intenso gioiello di angoscia. Il despota paranoico approfondisce alcuni temi già esplorati – in particolare la futilità della guerra, ed il dolore per il padre morto nel corso della seconda guerra mondiale – approfittandone per riallacciarsi agli eventi della storia contemporanea, che allora vedeva Margaret Tatcher ed il Regno Unito implicati nel conflitto delle Falkland (così ‘Maggie what have we done’ diventa un leit-motiv).
Alcuni pezzi come “The Fletcher Memorial Home”, “The Gunners Dream” e l’omonima “The Final Cut” sono eccellenti, anche se musicalmente non viene inventato assolutamente nulla di originale. Questo disco è infatti da considerarsi contemporaneamente una costola ed un’estensione di “The Wall”, dal quale sono ripresi, oltre alle tematiche affrontate, alcune celebri strutture musicali come le struggenti ballate al pianoforte e l’accompagnamento orchestrale. Il tutto però è un po’ meno lugubre e più intimista, meno rock e più cantautorale, mentre la psichedelia è ormai solo un ricordo. Permane anche il cliché tipicamente Floydiano dei rumori ambientali, qui causati da esplosioni di bombe, mitraglie, aerei che precipitano, trasmissioni radio militari: un bagaglio che Waters si sarebbe portato appresso anche nella successiva produzione da solista.
A posteriori risulta ormai evidente che, dopo aver dato alla luce questo disco, la mente creativa del gruppo non avrebbe avuto più bisogno dei suoi compagni, e soprattutto di un nome così ingombrante e vincolante come quello dei Pink Floyd. Il percorso artistico e personale di Roger Waters portava altrove, e con questo ‘taglio finale’ cala definitivamente il sipario sul periodo produttivo e felice del gruppo, lasciando spazio a strascichi giudiziari, penose dichiarazioni di odio reciproco, ed esperienze musicali perlopiù all’insegna della decadenza.