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Difficile parlare di questo album. Si tratta indubbiamente di una pietra miliare, una sorta di fascio, in parte incoerente, di forza e crudeltà, vita e disperazione; un insieme complesso di rock e tematiche rock dalle mille sfaccettature.
“The Wall” è il primo disco dei Pink Floyd di cui Roger Waters è il dittatore, grandioso cantautore padre del “concept” come di tutti i testi e della maggior parte delle musiche. Ma il resto del gruppo non è assente, per cui “The Wall” suona inconfondibilmente Pink Floyd (a differenza, forse, del successivo “The Final Cut”, quasi un album solista di Waters). Musicalmente questo album racchiude tutto ciò che di buono il quartetto ha fatto nei ’70, apportando a dire il vero poco di nuovo. Gilmour dona un valore aggiunto notevole all’opera, cantando come sempre molti pezzi e firmando anche alcune composizioni memorabili (soprattutto “Comfortably Numb” e “Run Like Hell”), dimostrandosi così ancora valido chitarrista – stupendi gli assoli – ed arrangiatore. Nick Mason, musicista forse non troppo brillante ma molto misurato, fornisce il suo solido apporto con una batteria tutto sommato impeccabile come sempre. E’ Rick Wright che risulta un po’ assente; molte parti di tastiera sono suonate da altri, e l’orchestra – accompagnamento ‘operistico’ gestito con grande intelligenza – riempie alcuni di quegli spazi che proprio lui in passato aveva saputo splendidamente arricchire. Difatti, Wright avrebbe lasciato di lì a poco il gruppo e sarebbe tornato stabilmente solo nel 1994, in occasione di “The Division Bell”. Dal canto suo Waters svolge egregiamente il suo compito di bassista suonando talvolta in modo memorabile (irresistibili alcune sue linee di basso), e regalandoci la sua voce inglese, splendidamente assurda. La musica, nel complesso, accompagna ed esprime magnificamente, con un sound pieno e limpido, le tematiche dell’album, rispecchiandone anche l’intensità emotiva e la violenza di fondo. E’ anzi il primo disco, nella storia dei Pink Floyd, in cui le musiche ed i colori si sbilanciano con decisione in direzione dei contenuti.
La storia narrata in “The Wall” è prima di tutto una storia personale, composta in parte da esperienze autobiografiche di Roger Waters ed in parte dalla storia di quel Syd Barrett, il folle ‘pifferaio’ lisergico dei primissimi Floyd che così spesso ha ispirato le canzoni del gruppo. L’isolamento in cui cade il protagonista – la rockstar ‘Pink’ – i traumi subiti a causa della morte del padre in guerra (come accadde realmente a Waters), la madre possessiva, la scuola omologante ed oppressiva, l’inevitabile falsità dei rapporti di chi è celebre nel mondo del rock: Pink si barrica dietro al Muro perdendo la capacità di rapportarsi agli altri e all’altro sesso (in cui vede la madre, distruttiva), soffrendone. Disumanizzato, arriva ad immaginarsi un Hitler sanguinario davanti al proprio odiato ed inutile stupido pubblico. Il tutto cresce in assurdità fino a che, grazie ad un processo (interiore, ma con tanto di giudice) Pink si libera, riuscendo ad abbattere il Muro. Questo Muro è quindi la barriera che isola il protagonista dal resto del mondo, una tragedia personale. Ma può e deve essere anche visto come il simbolo di ogni barriera che imprigiona l’uomo ed il suo spirito (e come chiave di lettura solo secondaria, quindi, anche come il muro di Berlino).
Forse quest’opera rock è criticabile da vari punti di vista (come è stato fatto), ma il successo di “The Wall” e la sua potenza nell’imprimersi nella testa dell’ascoltatore sono innegabili. A ben guardare, la storia di fondo non è particolarmente originale, ma è certamente segnata da una vivida vena di pazzia, oltre che sufficientemente articolata e profonda da prestarsi a molteplici interpretazioni, in chiave simbolica, pacifista, politica, sociale, psicologica… oltre che ad interpretazioni esagerate o fuori luogo. Molti episodi lasciano che l’ascoltatore si immedesimi facilmente nel protagonista, e vi è la forza delle immagini, sia di quelle crude evocate da testi e musica (“The Worms”, i vermi, e molti altri ‘mostri’) che di quelle rese esplicite dalla penna di Gerard Scarfe, talentuoso disegnatore padre di tutta la grafica del packaging e dei celebri disegni, animati poi nel film omonimo di Alan Parker. Il disco è coinvolgente, stilisticamente ricco, ed i momenti memorabili sono parecchi. Si spazia da rock ballads marcatamente Floydiane, a pezzi carichi di lugubri leit-motiv, ad intimiste song d’autore accompagnate dal pianoforte. Un lungo viaggio straniato che ha accompagnato molti in ore ed ore di ‘quiet desperation’, e che ancora oggi continua ad esercitare un fascino violento. I famosi mattoni da anni ormai figurano sugli zaini di chissà quanti ragazzi assieme alle scritte inneggianti a Jim Morrison: il Muro è diventato un simbolo carico di significati, a prescindere da ciò che era in origine. E per i Pink Floyd questo album doppio ha segnato con evidenza l’inizio della fine, con Roger Waters assurto a leader assoluto, cieco e solitario fautore delle proprie paranoie, e che pochi anni dopo, tentando di sciogliere il gruppo, se ne sarebbe separato.