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Da tempo indaffarato in diversi e più o meno interessanti progetti musicali – su tutti la collaborazione con Anne Sofie Von Otter nel riuscito “For the stars” e la meraviglia di “Painted from memory”, scritta a quattro mani con l’idolo Bacharach – Elvis II ha per molti anni (quasi sette) lasciato i suoi ammiratori privi di un album completamente ed originalmente suo. Resosi conto del tempo passato, l’artista ha composto di getto una manciata di canzoni su una Silvertone collegata ad un amplificatore da 15 watt, poi si è chiuso nei mitici Windmill Lane Studios di Dublino, dove ha richiamato d’urgenza Steve Nieve e Pete Thomas degli immarcescibili Attractions. Risultato: “When i was cruel” ripresenta – dopo molto più di sette anni – un Declan MacManus a forti tinte rock, a tratti ruggente e sporco come nel sottoprodotto e sottovalutato “Blood and chocolate” (A.D.1986…).
E’ impressionante ascoltare lo stoppato iniziale di “45”: pare di ritornare a certi tipici riff new wave fine anni ’70, forse un pò naives, ma pieni di energia. “45” è una tipica creatura di Elvis II, debordante nel suo spirito beat, una canzone sulla musica che evita banalità e nostalgie grazie al solito testo arguto dell’autore britannico. “Spooky girlfriend” è scarna, ritmica, tribale e contemporaneamente sfuggente: nel complesso non sembra ben riuscita, nonostante un finale più risoluto. “Tear off your own head” fuga ogni dubbio, un rockettone come da anni non si sentiva nella variegata e colta produzione di Costello, sporco ma non troppo, soprattutto intelligente e lineare.
Il pezzo che intitola il disco è assai affascinante nella sua tesa uniformità e nella chitarra col tremolo da giallo anni ’60 e per di più presenta un minuscolo estratto da “Un bacio è troppo poco” di Amurri/Canfora, cantata da Mina proprio al tempo delle prime minigonne. La tigre di Cremona sussurra un timido “un”, ripetuto ad intervalli regolari lungo tutta la canzone: “un” pò triste… ma ad Elvis deve avere fatto un effetto molto esotico.
“Soul for hire” è un altro classico brevetto costelliano ed introduce piacevolmente a “15 petals”, davvero splendida e trascinante, degna erede delle cose migliori del vecchio Spencer Davis Group, ricca di un sensazionale brass section che coniuga squisito r&b con inebrianti sapori mediorientali. Echi di Marc Ribot e del molto reverendo Tom Waits si odono in “…Dust” e nella stramba “Episode of blonde”, buffo impasto di reggae/vaudeville suonato da una banda circense: peccato per il ritornello,un pò troppo “normale” e stridente rispetto alla follia proposta nelle due introduzioni. Il rock torna tosto e rombante in “Daddy can i turn this?”, addirittura in odore di space rock made in Cope nello sfrenato finale distorto.
“Radio silence” chiude con voluto understatement, col suo incedere affascinante e sfuocato, un album diseguale e non facile, degno figlio di un artista logorroico, di note e di parole, che non ha mai scelto la via breve per il successo.