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Fin dai suoi esordi, la figlia di una baronessa austriaca ama sorprendere ed anche dare scandalo. I suoi dischi hanno sovente spiazzato per la loro etereogenità e per il loro essere diversi l’uno dall’altro, probabilmente figli di una vita piena di amori, sesso, droga e rock’n’roll. Fece scalpore, in pieni anni ’60, il suo “dedicarsi” agli Stones, per poi decidere di scegliere Jagger, con cui condurrà una relazione piuttosto movimentata…
Nel caso di “Kissin time” il rapporto con delle rockstar per vari versi un pò maledette continua, anche se qui si sta in ambito strettamente lavorativo e professionale. Nel disco di Marianne partecipano attivamente Beck, Billy Corgan, Dave Stewart, Jarvis Cocker, Etienne Daho ed i Blur.
Essi firmano, suonano e quasi sempre producono i pezzi nei quali sono coinvolti, con risultati artistici comunque intermittenti. L’album si apre con la gelida “Sex with strangers”, scritta con Beck Hansen, con il quale riproporrà “Nobody’s fault” (tratta da “Mutations” e purtroppo non all’altezza dell’originale) e la bellissima “Like being born”, commovente psycho-country interpretato dalla caratteristica voce quasi brechtiana della Faithfull: il risultato è di altissimo livello.
La presenza del cantante dei disciolti Smashing Pumpkins è numericamente uguale a quella di Beck: Corgan fa a sua volta sentire la sua personalità nella tesa “I’m On Fire” e nella dolce “Wherever I Go”, oltre a riarrangiare “Something Good”, il classico leggermente sdolcinato firmato Goffin/King. La non molto riuscita “The pleasure song” vede la partecipazione della star francese Etienne Daho, mentre “Song for Nico” evoca la musa di Warhol e Lou Reed attraverso la lente non prettamente a fuoco del creatore degli Eurythmics, Dave Stewart.
Le cose migliori – insieme alla citata “Like being born” – vengono da Jarvis Cocker e dai Blur (da Albarn su tutti). “Sliding through life on charm” è una perfetta Pulp song, una “Disco 2000” più rock e resa ancora più decadente dalla interpretazione teatrale della Faithfull: molto affascinante. Il pezzo che intitola il disco è quello firmato insieme ai Blur, un primitivo riff chitarristico ripetuto all’infinito, intriso di negritudine, sicuramente partorito da un Damon Albarn fresco dall’ormai leggendario viaggio in Mali.
Un album godibile e vario, quindi, il quale sarà probabilmente ricordato più per le collaborazioni eccellenti che per una reale importanza artistica. Fa comunque un grandissimo piacere rivedere questa donna formidabile che continua a rinascere dalle proprie ceneri e che continua a mettersi in gioco con alcune tra le migliori personalità dell’ultimo decennio: una pura questione di rispetto reciproco.