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L’esordio dei Sonic Youth è live: nulla di più adatto per una band che ha basato sempre molto della sua notorietà sugli infuocati concerti, magari nei piccoli club del Downtown da dove Thurston Moore, Kim Gordon e Lee Ranaldo provengono. Eh sì, perché ancora non c’è traccia di Steve Shelley negli annali del gruppo: nati quasi per caso, fusione dettata più che altro dalla voglia di uscire dai dettami punk che dominavano la scena indie newyorchese a cavallo tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, i Sonic Youth diventeranno, nell’arco di un decennio, il gruppo fondamentale per tutti coloro che intraprenderanno la strada del rock distorto.
A dire il vero l’esordio su vinile non è poi così promettente: Lee Ranaldo pone come scusante due possibili varianti, la disciplinatezza del batterista a fronte della follia, della rabbia e delle urla del resto della band e l’idea di registrare dei pezzi solo perché “ci avevano dato l’opportunità di inciderli”. In effetti è vero, su tutto l’insieme domina una sensazione di ristretto, il suono sembra costretto suo malgrado in una gabbia, non riesce a sovvertire realmente i canoni musicali dell’epoca (come faranno dopo gli Youth). Il loro primo concerto al “Noise Festival” del 1981, dove con loro c’era la chitarrista Ann DeMarinis, aveva svelato un po’ i giochi, ma mancava ancora la totale consapevolezza nei propri mezzi.
L’album, prodotto dalla “Neutral” di Glenn Branca, guru della scena newyorchese del periodo, è importante solo per capire che dietro quei muri di suoni e quelle dissonanze infinite c’è un’ideologia ben precisa, ancora non chiaramente esposta ma che col tempo giocherà in pieno le sue carte. Dei cinque brani nessuno è indimenticabile, anche se “I Dreamed I Dream” mostra interessanti potenzialità. Potenzialità che esploderanno da lì a pochi anni. Potenzialità che costituiranno l’ossatura e il midollo del rock indipendente mondiale. Se vi pare poco…