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Intervista di Riccardo Dondi
Sbucato fuori dal nulla, l’esordio di Good Morning Boy è uno di quei dischi che non ti stanchi mai di ascoltare.
Un po’ perché le canzoni sono tutte incantevoli, un po’ perché trasmette quel senso di immediatezza che è la qualità migliore di tanti dischi americani che abbiamo amato. La spontaneità e la sincerità della sua musica traspaiono anche dalle parole di Marco Iacampo, l’uomo dietro Good Morning Boy. E il fatto che venga dall’Italia consideratela come un’altra bella sorpresa.
Ecco quello che ci ha raccontato via mail.
Tra gli Elle, la formazione in cui eri prima, e Good Morning Boy c’è una grossa differenza: dalla musica fatta, al cantato in inglese, al fatto di non essere propriamente un gruppo. Quali sono state le differenze e come è nato il progetto? Come è nata l’idea di usare il nome Good Morning Boy e perché lo hai scelto invece del tuo vero nome?
Good Morning Boy in realtà non è un vero progetto. Non saprei come chiamarlo. Forse una casualità nata da un’esigenza. Tutto è nato per scherzo, quando ho cominciato a registrare circa un anno fa delle canzoni molto semplici al computer. Le canzoni non avevano sicuramente lo studio che poteva avere una canzone degli Elle. Le nuove ” composizioni” (mi fa ridere chiamarle così) erano viscerali, spontanee , minimali. Meglio direi incomplete. Non avevano struttura se non quella classica strofa ritornello strofa ritornello. L’inglese mi ha facilitato nella ricerca di melodie più libere e passionali. Ero molto contento delle nuove melodie.
E così mi sono accorto che stava tutto in piedi e che nelle registrazioni dovevo solo divertirmi a suonare tutto ciò che volevo e inventare arrangiamenti. Divertirmi e basta, senza nessuna professionalità, solo con gusto. Tanto non era un disco e niente doveva essere pubblicato.
Mi sono chiamato Good Morning Boy (il ragazzo del buongiorno) per un senso di forza che percorreva tutte le canzoni che stavo scrivendo. Non è il buongiorno delle nuove filosofie occidentali per yuppy frustrati. E’ il buongiorno della consapevolezza e della libertà d’animo. E poi le canzoni le scrivevo sempre di mattina in un
periodo di convalescenza forzata.
Le tue canzoni ci sono sembrate subito molto sentite, quasi che scriverle fosse un’esigenza. E’ stato così?
Sì, è proprio così. Le tredici canzoni che ci sono nell’album sono una parte di una quarantina di canzoni che ho scritto in un periodo relativamente breve. Le ho letteralmente buttate fuori, testo e musica. Sono state qualcosa di più che semplici canzoni. A volte amiche a volte scomode, a volte realtà che venivano a galla, a volte semplici storie che prima o poi mi hanno detto qualcosa. E’ stato magico, non mi era mai successo e non so se mi succederà ancora.
Come è nato il disco e chi ci ha partecipato e chi è Aphrologique che nel disco ringrazi per l’aiuto?
Il disco, come dicevo, l’ho suonato e cantato tutto io. Aphrologique è lo pseudonimo di un sant’uomo (all’anagrafe Federico Cattai) che ha cercato di soddisfare tutte le mie richieste di registrazione. Un conoscitore del computer e un punto di confronto FONDAMENTALE. E’ anche stata una spalla di conforto in molti momenti. Ha sempre creduto in me anche se sembrava che alcuni pezzi non avessero ne capo ne coda. Spero di lavorare ancora con lui.
Tutto il disco è pieno di rumori di sottofondo e cose del genere. Come è stato registrato?
E’ stato registrato con un mac e qualche buono e pessimo microfono. Non avevo mai registrato niente. Sono contento di aver fatto un buon lavoro. I rumori e tutto il resto è l’aspetto non professionale del disco. Non dovevo fare un disco, dovevo divertirmi.
C’è un’influenza marcata della musica americana sia recente (Sparklehorse, Flaming Lips) che storica (Neil Young). Come è nata questa influenza?
Tutto è nato ovviamente da Neil Young. Mi sento spiritualmente vicino a lui e l’ho sempre seguito con gli occhi di un bambino che guarda ammaliato un bambino un po’ più grande vicino a lui. Per quanto riguarda i suoi figli americani citati, sicuramente rientrano tra i miei ascolti. Penso tuttavia che lavorando di fronte ad un mac con il riferimento di certi suoni e le batterie elettroniche si tenda ad uniformare gli adepti di una certa musica americana.
Nelle tue canzoni c’è come una sottile vena di follia, qualcosa che ti sorprende sempre. Come lo spiegheresti?
E’ puro divertimento e libertà. Niente di forzatamente psichedelico. Questo è importante: i pezzi sono improvvisati per la maggior parte, aggiustati alla meno peggio, con note sbagliate e soluzioni affrettate. E’ la spontaneità del disco a piacere. E la pazzia è solo un modo di decodificare la libertà.
C’è una canzone che ci ha colpito più di altre”Migratory boy”, perché ricorda molto certe cose di David Crosby e Crosby, Stills, Nash and Young. Come ti è uscita?
E’ una cosa piuttosto semplice. Facendomi dosi di csn & young , poco, the band.
C’è qualche gruppo italiano a cui ti senti vicino?
Non particolarmente sotto il lato artistico. Ho sempre ascoltato musica diversa. A Mestre, la città in cui vivo, siamo molto vicini tra band di vario genere (kleinkief, zabrisky, libra, elle) e sicuramente la condivisione di molti momenti da “musicanti” fa sì che ci sia anche uno scambio di energie e stimoli creativi.
Progetti per il futuro: il disco verrà promosso anche in Europa. Che cosa ti aspetti? Suonerai in giro il disco?
Ci sono state buone risposte dall’estero e sto aspettando che si concretizzino al più presto. Non mi aspetto niente in particolare. Mi basta continuare a fare piccoli passi in avanti oltre che in fuori. Il disco lo sto già suonando in giro supportato da una band di scalmanati suonatutto, già elementi di klenkief e zabrisky.
Infine una richiesta di GoodMorning Boy. Ci chiede di svelare un disco a cui tiene particolarmente.
“Sister Lovers” dei BIG STAR. Scusatemi, ma ce l’ho sempre in testa.