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Il nuovo album di Sheryl Crow, il suo quarto in studio, si apre con “Steve McQueen”, un bel rock che richiama alla mente i groove migliori del secondo ottimo album della cantautrice, “Sheryl Crow”. Un pezzo convincente, dal testo disimpegnato (che ci ricorda il Blasco nazionale!), destinato a rimanere piuttosto isolato all’interno dell’album. Segue infatti “Soak Up The Sun”, più leggero, ricco di cori e ricami vagamente californiani, e si comincia a delineare lo spirito dominante del disco. Ovvero uno spirito alla ricerca del ‘mainstream’, di un suono chitarristico, compatto e scorrevole, tradizionale ma volutamente trendy, ed inconfondibilmente made in USA.
Abbandonati completamente i richiami folk verso cui sterzava il precedente “The Globe Sessions” – lavoro intimista peraltro di buon livello – la Crow ha fatto un passo in direzione dei suoi primi due album: verso il rock solido, sanguigno e alla Stones del secondo, e verso il pop più leggero del disco d’esordio. Facendo però anche un passo in avanti, verso un sound solare come mai si era potuto apprezzare nei suoi lavori precedenti. La cantautrice ha quindi apparentemente riposto le bottiglie di whisky e le malinconie che la accompagnavano da tempo, per dedicarsi ad una dieta a base di mare e spiaggia, di campi dorati, di strade roventi percorse con in testa solamente sole e vento, il tutto condito da rock’n’roll, country e liriche personali.
Non è detto però che la nuova direzione sia del tutto azzeccata. Infatti “C’mon, C’mon” pur suonando e scorrendo bene, talvolta resta troppo in superficie, e sicuramente scarseggiano i brani di rilievo. I numerosi ed importanti ospiti (tra gli altri Don Henley, Lenny Kravitz, Emmylou Harris, persino l’attrice Gwineth Paltrow) forniscono un apporto volutamente marginale, per lo più da coristi. E’ Sheryl, l’affascinante rockeuse già quarantenne, che ha in mano tutto: la composizione (per la quale spesso si fa affiancare da coautori), il canto, il compito di suonare alcuni strumenti, e la produzione. Ma qualcosa le sfugge, perché sono troppe le ballatone country-rock dalla personalità un po’ insipida, e queste rendono il disco nel complesso eccessivamente omogeneo. Spesso manca insomma quell’ingrediente musicale accattivante a cui ci aveva abituati la cantante.
Meritano comunque attenzione, oltre alle due tracce di apertura già citate, l’irriverente “Lucky Kid”, “Hole In My Pocket”, l’intenso lento “Safe And Sound” e l’intimista e delicata “Weather Channel”. Tra le ballate convincono il brano che dà il nome all’album (con un attacco molto Rod Stewart) o “Abilene”, mentre onestamente è difficile capire cosa farcene di pezzi come “Diamond Road”, “It’s So Easy” o “It’s Only Love”. Non sono brani spregevoli, ma al complesso del disco non aggiungono nulla. Deboluccia anche la melodia di “You’re An Original”, il duetto con Lenny Kravitz.
In definitiva, “C’mon, C’mon” può anche regalare emozioni, se ci si abbandona alla sua scorrevolezza, al vento fresco che soffia tra le sue tracce. Ma se in questo disco si cercano certe qualità a cui ci aveva abituato Sheryl Crow, e i picchi compositivi apprezzati nei suoi lavori precedenti, è possibile restarne delusi.