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Ogni gruppo che si rispetti ha dovuto mettere, prima o poi, le mani sul proprio album definitivo, sull’opera che racchiuda in sé tutte le opere precedenti e future: c’è stato l’album omonimo per i Beatles, “Dark Side of the Moon” per i Pink Floyd, “Ok Computer” per i Radiohead ecc. ecc. “Daydream Nation” è l’equivalente per i Sonic Youth. In esso è racchiusa l’intera essenza del gruppo: giocosa, divertita, rabbiosa, aspra.
Il titolo già di per sé è evocativo: nazione del sogno ad occhi aperti. Siamo in piena era Reagan, con le sue limitazioni e il tentativo ultimo di far passare per pericolose le idee di Gorbaciov, col suo intervento omicida in Salvador e in molti altri paesi dell’America Latina. Una candela bianca su sfondo nero campeggia sulla cover. I Sonic Youth sanno scherzare, ma sanno anche quando prendersi sul serio, e, il che è fondamentale, sono consapevoli che la loro condizione di artisti gli impone di schierarsi: così lo fanno, senza problemi.
“Daydream Nation” è un album difficile (ma potrebbe essere altrimenti?)…la lunghezza media dei brani è sui cinque minuti, ma ben quattro di esse si elevano sui sette e la conclusiva “Triology” arriva a toccare i quattordici. Totalmente padroni del proprio stile i Sonic Youth divagano, spaziano, aprono le proprie suite a interminabili corse chitarristiche, fughe giocose verso l’infinito, verso quella Death Valley citata nei lavori degli esordi, ormai non più luogo del sogno, ma tangibile realtà. Eppure il tutto continua ad essere compresso in un’attitudine post-punk a cui, giustamente, non si riesce a rinunciare. Prende così vita l’universo eccitante di “Teen Age Riot”, di “The Sprawl”, “‘Cross the Breeze” e “Total Trash”, che unite formano un’opera nell’opera, forme perfette alle quali non manca nulla, ardore, bellezza, purezza, tremore, rabbia, ira, ironia, caparbietà.
Mentre “Bad Moon Rising” poteva essere letto come l’album di Ranaldo, “EVOL” come quello di Gordon e “Sister” come quello di Moore, “Daydream Nation” è l’album dei Sonic Youth, qui ogni valore personale emerge e si mescola a quello degli altri. Se ancora qualcuno poneva dubbi sulla carica emotiva ed espressiva del gruppo, di fronte a questo capolavoro è costretto a ricredersi e a chinare il capo. E rimane anche il tempo per ammirare la classe di “Eric’s Trip”, “Hey Joni” e “Kissability”, prima di ammirare sorpresi la pacificante “Providence” e prima di strabuzzare gli occhi davanti alla magnificenza di “Triology”, primo esempio di opera-noise, riassunto in quattordici minuti di quell’album che è il riassunto di un’esistenza musicale.
Oramai le strade del successo sono asfaltate, sarà con “Goo” che i nostri cominceranno a percorrerle, finalmente protetti da una major.