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Se “Dirty” è l’album della definitiva consacrazione, con “Experimental Jet Set, Trash and No Star” i Sonic Youth tornano a cercare il suono semplice e diretto degli esordi.
Questo cambio di direzione è dovuto dal fatto che, a detta della stessa band, il risultato finale dell’album precedente, pur sfiorando una perfezione praticamente mai raggiunta in precedenza, aveva lasciato i quattro in preda alla noia. Tutte quelle piste sonore aggiunte (comunque nettamente inferiori alla media!!!) avevano deturpato il gruppo della sua essenza primaria: l’odore del live, il fascino del fruscio, del suono sporco ma diretto, magari a volte incomprensibile ma sincero, duro, immediato. Quel fascino che in realtà può capire solo chi, come i Sonic Youth, ha vissuto per anni nel sottobosco musicale newyorchese, attraversato in appena venticinque anni dal rock eroinomane dei Velvet Underground, dalle scosse elettriche del punk e dalla cupa introspezione dissonante della new wave (o no wave come amerebbe dire Thurston Moore).
Ma torniamo ad occuparci del 1994, della Geffen e di “Experimental…”: parlando da amante idolatra della gioventù sonica devo proprio dire che siamo davanti ad un lavoro imperfetto. Uff, ce l’ho fatta, l’ho detto: per carità, non manca la rabbia, l’ironia, la freschezza tipici del prodotto Sonic Youth, ma il tutto appare un po’ tirato per le lunghe, reiterato immeritatamente. Inaspettate sonorità distese sorprendono già dall’attacco della bellissima ballata “Winner’s Blues” che di vincente e di blues ha veramente poco ma che si attacca all’anima. E sono proprio le improvvise pause di riflessione, gli oceani di calma, le buche introspettive la parte migliore di quest’album, che cede invece proprio dovrebbe essere più forte.
Le tournée degli anni immediatamente precedenti affrontate insieme ai Sebadoh di Lou Barlow (ex Dinosaur Jr.), ai Royal Trux, ai Pavement di Stephen Malkmus, ai Boredoms hanno sicuramente lasciato nella band l’attaccamento al Lo-Fi, così come il rock distorto dei Nirvana e dei Mudhoney aveva influenzato “Dirty”. E proprio qui sta la grandezza dei Sonic Youth: essere consapevoli della propria posizione di dominatori sulla scena indie statunitense eppure essere ancora così umili e semplici da apprendere da band più piccole (“E’ bello capire che non c’è bisogno per forza di 200000 $ per fare un album” dice Steve Shelley). E questa grandezza è evidente anche nel lavoro meno riuscito. Anzi, forse soprattutto qui.