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Anche per i Sonic Youth arriva il momento di accasarsi con una major: ma la scelta non è dettata esclusivamente da motivazioni di carattere economico. La verità è che alla fine degli anni ’80 le case di produzione indie attraversano un momento estremamente negativo, impossibilitate come sono ad offrire a gruppi oramai famosi come i Sonic Youth, i Replacements e gli Husker Du le condizioni ottimali per lavorare. Così, dopo mille tentennamenti, i nostri abbandonano la casa madre e veleggiano verso la società di David Geffen. Ma lo fanno con una piena consapevolezza delle proprie intenzioni: non svendersi. Tale è la convinzione di riuscire in ciò che desiderano da convincere Dinosaur Jr. e Nirvana, band figliocce del loro sound, a fare altrettanto. Molti dei fan della prima ora sono disgustati, perché immaginano una progressiva commercializzazione del suono, ma si sbagliano, e di grosso.
I Sonic Youth mandano alle stampe “Goo”, e sì, è vero, promuovono i singoli su MTV, vanno in tournée con Neil Young (loro mito), concedono interviste televisive. Insomma, si comportano da band supportata da una major: ma non svendono il loro suono, no, questo proprio no. E se “Dirty Boots”, primo singolo ad uscire, può lasciare dubbi sulla perdita della loro complessità musicale (ma brani così erano presenti anche agli esordi), si provi ad ascoltare il secondo pezzo scelto come singolo. “Kool Thing”, col suo incedere angoscioso incentrato sul rumore e sulla voce bassa di Kim Gordon, con quegli intervalli dialogati, è molto vicina alla musica proposta dai Ciccone Youth (ovvero i Sonic Youth mascherati per divertimento da band commerciale, che proposero nel 1987 una versione ustionante e splendida di “Into the Groove” di Madonna: ritorna sempre valido il discorso sull’ironia).
No, i Sonic Youth non deludono, fedeli come sono al loro spirito, e dopotutto questo non li mette neanche in contrasto con la Geffen, visto che vendono come mai nessuna band indie era riuscita a fare prima. E anche se il capolavoro “Daydream Nation” è troppo recente e si è obbligati a fare stupidi paragoni (a discapito di “Goo”), rimangono brani eccellenti come “Tunic (Song for Karen)”, “Mote” e “Disappearer” a illuminare l’aria.
Per non parlare della geniale copertina disegnata da Raymond Pettibon che mostra un ragazzo e una ragazza “very dark” (come direbbe Kim) abbracciati in macchina, con la ragazza che recita “I Stole My Sister’s Boyfriend. It Was All Whirlwind, Heat, and Flash. Within a Week We Killed My Parents and Hit the Road”. Ovviamente proteste, accuse di incitamento a chissà quali efferatezze e altro accompagnarono l’uscita dell’album nei bigotti States. Ma neanche questa è una novità.