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I tre anni che dividono “Washing Machine” dall’uscita di questo “A Thousand Leaves” formano un solco fondamentale nella band più prolifica degli ultimi vent’anni. Più di mille giorni in cui i Nostri evadono da qualsiasi cliché gettandosi in avventure diverse e stimolanti. Dopo essere stati il gruppo di punta al Loollapalooza nel 1995, organizzano per la primavera seguente un grande tour europeo. Nel 1997 partecipano al gala in onore del cinquantesimo compleanno di David Bowie (tra gli altri invitati Lou Reed e gli Smashing Pumpkins), ma nel frattempo ognuno prende parte singolarmente ad iniziative di colleghi: Thurston Moore tiene concerti in Canada, Svizzera e a New York con William Winant e Tom Surgal, Lee Ranaldo suona, sempre a New York, con William Hooker, mentre Kim Gordon lavora con Free Kitten in Inghilterra e Steve Shelley fa lo stesso con Cat Power in Francia. Lee Ranaldo compie poi, nel 1996, un viaggio con Leah Singer in Marocco, ed entra in contatto , in uno sperduto villaggio sulla montagna di Jajouka, con i Maestri Musicanti, possessori del “segreto della musica”.
Tutta questa libertà è riprodotta, creativamente, negli undici brani che compongono “A Thousand Leaves”, vicino come identità musicale al precedente “Washing Machine”, lontano migliaia di anni luce dalla sbandata pseudo-grunge di “Dirty” e “Experimental…”.
A parte casi sporadici (come “Sunday”), non compaiono esempi di quell’incrocio fra noise, pop, punk, rock’n’roll e psichedelia che aveva reso immortali album come “Sister” o “Daydream Nation”. Qui la materia con cui bisogna confrontarsi è la sperimentazione. Ma non quella da “Jet Set” su cui il gruppo aveva ironizzato in passato, piuttosto la sperimentazione da low-fi, quella da cantina, quella col suono sporco. Quella vera, se così si vuol pensare.
L’unico brano a rimanere ben al di sotto dei cinque minuti è “Contre le Sexisme”, che funge idealmente da apripista ad una vera e propria opera concettuale. Mai i Sonic Youth si erano così duramente allontanati dalla forma-canzone classica. E se “Wildflower Soul” e “Karen Koltrane” si ergono al di sopra dei nove minuti di durata, è “Hits of Sunshine (for Allen Ginsberg)” a sbalordire. Il devoto omaggio a Ginsberg, ultimo padre vivente della beat generation scomparso il 4 aprile del 1997, si sviluppa in undici minuti di pura perdita di coscienza, flusso emotivo unico nel suo genere, magma lento e costante che avvolge l’udito per sconvolgerlo.
La perdita di verginità dell’ascoltatore indie. Questo è il nuovo mondo Sonic Youth, aspro, estremamente difficile e a volte assordante. Peccato per l’impossibilità di sfruttare commercialmente un tale prodotto: forse il primo insuccesso della loro storia. Ma c’era da aspettarselo, e sono sicuro che non vi siano state scene drammatiche nel gruppo a seguito della dèbacle. Perché la band più stramba del nostro sistematico mondo discografico raggiunge qui la sua maturità, è vero, ma è pur sempre una maturità sonica.