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C’era molta attesa per questo album, dopo l’ottimo debutto con “Lost souls”. Jez ed Andy Williams, insieme a Jimi Goodwin, hanno preparato la loro seconda prova lungo l’arco di un anno, spostandosi da uno studio all’altro.
Essendo nativi di Manchester, i tre si sono spesso ritrovati ad essere una risposta casalinga allo strapotere musical-mediatico dei concittadini Oasis, e di conseguenza investiti di grosse responsabilità verso critica, pubblico ed ovviamente sé stessi. “Last broadcast” ha così avuto una gestazione molto ponderata, e se le melodie appaiono discretamente spontanee, gli arrangiamenti rivelano un impegnativo lavoro di cesello, soprattutto nelle parti chitarristiche. Musicalmente questo trio mancuniano s’inserisce nella enorme tradizione pop d’Oltremanica, con una particolare assonanza verso gruppi come Stone Roses e House Of Love, attivi a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, marchi decisivi per il rilancio dell’allora stagnante brit pop.
Non considerando l’intro, i primi due pezzi del disco stanno lì a dimostrare quanto detto: “Words” ha un ritmo ciondolante ed allo stesso tempo incisivo, tipico del vecchio gruppo di Ian Brown, ed a momenti pare di tornare a certo baggy modello primi Blur (“Leisure”). “There goes the fear” mostra invece il lato decisamente melodico ed insieme ritmico delle Colombe: una cavalcata dolce e mai banale, in tipico stile Guy Chadwick. Gli accordi di “M62 song” fanno sobbalzare sulla sedia, facendo pensare al plagio: infatti la canzone non è altro che una rivisitazione della meravigliosa “Moonchild” dei Re Cremisi, naturalmente under permission degli stessi. Bella e coraggiosa, ma l’originale è irraggiungibile. Anche il riff iniziale di “Where we’re calling from” fa venire in mente un’altra delizia House Of Love, l’eterea e malinconica “The girl with the loneliest eyes”, trasformandosi comunque in un altro pezzo, “N.Y.”, peraltro molto suggestivo ed ispirato, una delle highlights del lavoro. “Satellites” continua a tenere alta la qualità con la sua atmosfera vagamente gospel ed una buona dose di bruma inglese a metà tra Harcourt (compagno di scuderia alla Heavenly) e David Gray.
La consulenza di Sean O’Hagan (Microdisney, High Llamas, Sondre Lerche) nell’arrangiamento di “Friday’s dust” è di gran classe, soprattutto nel non appesantire una canzone piuttosto dark: il risultato finale è rilevante. Epici echi di U2 si trovano nella leggerina e dimenticabile “Pounding”, mentre si ritrova una buona vena nella piacevole favola di “The sulphur man”, solo apparentemente ingenua e semplice, un po’ Nits dipendente (se mai i Doves li avessero mai sentiti…). Chiude, senza il botto, “Caught by the river”, ballata assolutamente non disprezzabile, comunque un déjà vu. “Last broadcast” è in ogni caso un album gradevole e piacevole, in perfetta sintonia con chi ama ascoltare le sette note passate dal tipico setaccio britannico.