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Chi sono i personaggi che popolano questo disco? Da dove vengono Angelene, Catherine, Joy, Joseph, Dawn, Elise? Di che cosa è fatta la loro inquietudine, e cosa cercano tra le pieghe delle loro vite?
Polly, giunta alla sua quarta fatica discografica, non lo dice di certo, e si limita, come un regista carico d’amore verso i suoi personaggi, a dipingere squarci delle loro emozioni. Tutte queste 12 canzoni sono cariche di desiderio, di passione, e di una voglia di purificazione tanto urgente quanto lontana. La musica si allontana sempre più dalle violenze chitarristiche degli esordi, per arricchirsi di pianoforti, archi e seduzioni elettroniche, tanto da ricordare, in episodi come “My beautiful Leah” o “Electric light”, gli incubi isterici di Tricky.
“Angelene” presenta se stessa con una morbida ballata, e racconta la sua vita di perdizione: la sua bellezza l’ha rovinata, e nonostante tutto riesce ancora a sognare che qualcuno la porti via, lontano, verso una “gioia non detta”. “The sky lit up”, con le sue inquiete vampate di ritmo è l’abbandonarsi alla passione, perché forse non resta più niente, solo un “cielo acceso”: “Non mi interessa cosa lui stia pensando/ solo prendi la macchina, prendi la mia mano”. “The wind” è strepitosa nel suo sovrapporsi di sussurri e canto, e offre un’altra immagine di donna alla ricerca di pace (“qui lei costruì una cappella con/ la sua immagine sul muro/ un posto dove riposare e/un posto dove lavarsi/e ascoltare il vento che soffia”).
Le vecchie inquietudini riprendono corpo in “My beautiful Leah”, fascinoso blues industriale senza più spazio per l’autoironia, ma solo un incombente senso di tragedia, e l’amore che assomiglia a una droga (“se non lo trovo questa volta/allora è meglio che muoia”). “A perfect day Elise” è il bellissimo primo singolo tratto dall’album: lambisce il pop, ma lo sporca di rumori e di un testo, ancora una volta, incantevole (“Dio è il sudore che corre lungo la sua schiena/l’acqua mutò i suoi biondi capelli in nero”).
Cinque capolavori, uno dietro l’altro, ma la meraviglia non può continuare, e il disco si perde un po’, passando dai suoni involuti di “Catherine” ed “Electric light” all’angoscia percussiva di “Joy”. Ma è solo un momento, e le canzoni tornano di nuovo a farsi splendide: la quiete dei suoni di “The garden” e “The river” conduce all’orgia di suoni di “No girl so sweet”, due minuti e trentanove secondi di voce impazzita, chitarre filtrate e violini, che ha l’effetto di un’esplosione nelle orecchie di chi l’ascolta.
Alla fine della tempesta rimane solo una strana e dolorosa calma, un blues minimo, e solo una domanda, lasciata a chiudere il disco: “Is this desire?”. E, ovviamente, nessuna risposta.
(Daniele Paletta)
1 luglio 2002